Non so che titolo dare.

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e^ip+1=0
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Non so che titolo dare.

Messaggio da e^ip+1=0 » sabato 30 novembre 2013, 0:32

In questi ultimi mesi non ho scritto granché su questo forum. Sono stati mesi molto particolari poiché, proprio nel momento in cui sembrava che finalmente potessi dire: “la tempesta è alle spalle”, il caso mi ha riservato nuovi dolori, terribili coltellate al cuore, che mi hanno colpito proprio mentre, debole e provato, mi stavo rialzando.
Ho già narrato le mie vicende passate qui:

viewtopic.php?f=17&t=3456

viewtopic.php?f=56&t=3808


Per riassumere (com’è strano sintetizzare queste cose, per me!): mi sono innamorato di un ragazzo, L., in maniera folle, senza limiti, senza essere ricambiato. Un anno passato nel desiderio più forte e inascoltato. Allo stesso tempo, ormai da due anni, stavo con una ragazza, avendo ingannato lei e, prima di tutto, me stesso, nella repressione della mia omosessualità, che da tempo immemore portavo avanti. Il tutto ha avuto come cornice, nello stesso tempo, la malattia di mia nonna, una figura da sempre importante nella mia vita, come avrete modo di vedere, e la morte di un mio zio a cui ero molto legato. A inizio Maggio io e la mia ragazza ci siamo lasciati. E io , fino a fine Luglio, ho continuato a passare notti insonni versando lacrime su L.
Tremendo questo riassunto. Non rende per niente. Per capire un minimo bisognerebbe leggere i collegamenti che ho messo sopra, ma se non avete voglia di imbarcarvi in letture lunghe, continuate pure a leggere qui.

Quello che scriverò ora è il frutto di tutti questi mesi di fine estate e d’autunno. La ragione per la quale, come vedrete, abbondo in dettagli, è che voglio fissare ciò che è accaduto, far sì che diventi definitivamente “passato”. Altrimenti esso continua ad affiorare in me, creando solo dolore, una sofferenza che, nei momenti in cui più sono solo, a letto la sera, quando sono solo in casa e ceno, diventa atroce e mi sfianca.
Uno degli ultimi giorni di Luglio presi coraggio e decisi infine di parlare chiaramente, molto più di quanto non avessi già fatto precedentemente, a L.
Decisi di porre fine a questa ossessione senza speranza: non so bene come, con quale coraggio, probabilmente quello dettato dalla disperazione, volli vederlo faccia a faccia, nel pieno del caldo opprimente che Firenze riserva in quei giorni, in una piazzetta sperduta del centro storico, uno di quei luoghi accoglienti che tale città, tra i suoi palazzi così alteri e poco ospitali, mette talvolta, quasi una sorpresa, sul percorso di chi la giri senza una meta. Ricordo che sudavo, era come se tutto il mio corpo piangesse lacrime, ma non dagli occhi; riuscii a confessargli la verità, tutto il mio disperato amore, tutto quello che Egli per me rappresentava. Consegnai nella sua mano enigmatica, ferma, ben più delle mie, che erano tutta una contorsione, le poesie che avevo scritto per lui in tante notti insonni. Così, forse, non avrei più passato le mie ore a macerarmi nel pensare a come Egli avrebbe reagito se le avesse lette. “Smascheriamo tutto, mettiamo in atto, basta sognare cose impossibili!” mi ero detto, nel desiderio di porre fine a quanto era accaduto.
Proprio in quel mese, tra le mille altre cose che potevano accadere, il mio gruppo teatrale metteva in scena dopo mesi di preparazione, nel corso di un’evento culturale, alcune scene tratte dalle maggiori opere di Shakespeare. Indovinate che scena mi era capitata? Ma la scena del balcone, ovviamente, dove interpretavo Romeo. E mi era riuscita benissimo a detta di tutti, “come se sentissi quello che dicevo”. Certo che lo sentivo, non mi ci voleva molto, anche quando mi lavavo i denti pensavo a L., figuriamoci in un’occasione come quella. Sembrerà forse a qualcuno che io mi stia costruendo una storia romanzata, ma è proprio andata così. Impossibile? Incredibile? Lo penso io stesso quando ricordo tutto questo. Ma è effettivamente accaduto. Mesi di prove nelle quali, uscito di scena, piangevo in camerino e il povero attore che interpretava Mercuzio si dannava per consolarmi. E poi di nuovo dentro, immaginando che nel balcone non ci fosse Giulietta, ma L.
E chi ha letto uno dei miei precedenti post può fare un parallelismo tra il balcone e una serata passata davanti ad una finestra. Non so che dire ripensandoci. Quasi mi viene da ridere. Quasi. Non solo ma in quel periodo, per l’appunto, leggevo i sonetti di Shakespeare, e ognuno, quasi mi ricordava L.
Perciò gli regalai anche il libro dei sonetti di Shakespeare, quando ci vedemmo in quel caldo pomeriggio, con dedica inclusa. Insomma, misi sul tavolo tutto quanto provavo per lui. Non ebbe reazioni visibili, ricordo, ma nulla cambiò molto fino a quando… …ora riderete davvero forse: non siamo andati in vacanza insieme a Parigi. Non da soli, naturalmente: nel mio gruppo di amici, di cui fa parte anche L., c’è un ragazzo per metà francese che ha invitato tutti noi a casa sua nella Ville Lumière. Senza dubbio si è trattato di una delle vacanze più belle di tutta la mia vita, anche se i primi giorni sono stati per me psicologicamente difficili. Ritrovarsi per puro caso (vi giuro, è stato così!) da solo con L. davanti all’Hotel de Ville, proprio dove Doisneau ha scattato la famosa foto del bacio, essere dietro di lui, carezzarlo con il respiro, senza che se ne accorgesse, davanti alle ninfee di Monet dell’Orangerie, è stata una sfida. Ma l’ho vinta questa sfida: già da quando ci avevo parlato in quell’afoso pomeriggio a Firenze mi ero fatto forza e avevo cercato di uscire da questa dolce, crudele, costante ossessione cercando di accettare la realtà, l’impossibilità della sua realizzazione, cercando di capire il male che essa mi stava facendo mentre mi portava a illusioni tremende. Lì a Parigi ebbi anche modo di vedere il vero L., con i suoi difetti, non più l’immagine che di lui mi ero creata. Questo è servito a far sì che, ridotto psicologicamente ad un rottame, io uscissi dalla fase più disperata. Quando siamo tornati tutto si è lentamente sempre più appianato. Alla fine, verso metà settembre, l’ultima volta che ho scritto, ero giunto a questo punto: “ho sofferto terribilmente, e ancora sento i postumi di quanto è accaduto”, mi dicevo, “ma tutto questo dolore mi ha dato la possibilità di capire ed accettare ora, e non più tardi, la mia omosessualità. Ho visto morire una persona a me cara, ma essa mi ha dato, poco prima di andarsene, un messaggio di grande forza e coraggio” (Ed è vero, il mio zio americano era una persona incredibile, mi ha lascito quasi, posso dirlo?, con allegria, nel suo spirito secondo cui “the adventure continues”, come era solito dire sempre). Quindi, mi facevo forza, cercando di chiudere con questa fase, e di prendere quanto di buono c’era stato per costruirmi un’esistenza nuova e più serena. Ero un ferito che stava guarendo e tornava a vivere. Purtroppo qualcosa di terribile doveva ancora accadere.
Verso metà settembre do un esame, esco dall’orale tutto contento: 30! Mi sentivo pieno di forze e mi dicevo: “qui si inizia qualcosa di nuovo! Sono pieno d’energia! Che bello! Ce l’ho fatta!”
Torno a casa, poggio la roba, chiamo i miei per dirgli del buon risultato e la prima frase che mia madre disperata mi dice, appena risponde, è: “Nonna è morta”. Così, una pietra tra capo e collo, un fulmine a ciel sereno: barcollo, butto in terra il cellulare che si spacca in mille pezzi, prendo una scatolina di porcellana che c’era su un mobile e la mando in frantumi, poi mi accanisco sulle carte presenti sul mio tavolo; butto all’aria tutto, libri, fogli (ho avuto abbastanza lucidità da non distruggere il computer), prendo le sedie e le lancio per la stanza e urlo, urlo a squarciagola, come mai mi era capitato in vita mia. Poi cado a terra, quasi mi ferisco battendo contro i cocci, e piango singhiozzando terribilmente. Non capisco più nulla, rimetto a posto il telefono, contatto brevemente i miei, mi precipito alla stazione, prendo il primo treno, a Firenze cambio, cosciente come può esserlo un automa, e mi scaravento nella città dove mia nonna viveva. Alla piccola stazione di provincia trovo mio padre: un abbraccio rapido, rapido, rapido. Tutto è così rapido, senza senso. Fisso il parabrezza dell’auto: “andiamo a casa della nonna no?” penso. E invece mio padre svolta, ed è lì che capisco. Ci inoltriamo per una salita. Ora sì che vedo tutto chiaro. “L’ospedale, quant’era che non ci passavo”, trovo la forza di pensare. Poi la scritta “obitorio” mi accoglie. è veloce, entro e, senza sapere come, sono già, da solo, poiché mio padre è rimasto indietro, nella stanza giusta. E lì, la prima cosa che vedo è la migliore amica di mia mamma, che mi guarda con sguardo sconsolato. Lì accanto c’è mia madre: mi mette le braccia al collo e mi stringe. Io la abbraccio, ma sono nervoso, ad un certo punto mi divincolo e guardo dietro di lei.
Nonna.
Non sei cambiata molto. Pare che tu stia riposando, come eri solita fare dopo pranzo, nella tua camerina con la finestra che dava sulla città e da cui, maestoso sulla collina di fronte, si poteva ammirare il duomo. Sembra che tu stia riposando tra i tuoi libri, le tue preghiere, le tue piccole icone sparse qua e là per la stanza. Riposando tra i tuoi libri di matematica, ricordo di un’esistenza rara per una persona del tuo tempo, ricordo di una laurea presa in tempo di guerra, sotto le bombe, all’università di Roma. Ricordi del tuo coraggio di studentessa, donna, dettaglio che a quei tempi molto voleva dire; studentessa che, quando non si applicava alla matematica, portava missive per i partigiani, rischiando la vita. Nonna. Sei lì. Ti carezzo la fronte, come eri solita fare tu quando ero piccolo e mi addormentavi, dopo pranzo, sul lettone grande, cantando “lenta la neve fiocca fiocca fiocca”, la tua dolce nenia che, lo scopro solo ora, è una poesia di Pascoli. è qui che, non riuscendo più a controllarmi, mi getto tra le braccia di mia mamma.
è già giorno di nuovo: faccio fatica, non sono muscoloso, i pesi grossi mi schiacciano; ma io questo peso lo voglio portare. Il tragitto dalla Chiesa al cimitero è breve e così riesco assieme ad altri quattro ben più forti di me, a portare la bara. Il manovale chiude il loculo, io scrivo il nome sul cemento fresco. La gente se ne va. Rimango solo coi miei genitori. Solo. è bella la tua tomba nonna, è proprio bella: guarda fuori dal muro di cinta, così puoi vedere queste belle colline, le tue colline, che tanto hai amato, puoi ammirare questa tua terra così gentile e accogliente dove sei nata, le dolci Marche, così calde in confronto alla bellissima e chiusa Toscana dove hai vissuto per cinquant’anni.
La sera passeggio per il paesino dove sei nata: vedo il parco giochi dove, quando ero piccolo e venivamo qui a trovare un po’i parenti, mi facevi giocare. Te lo ricordi nonno, quando, per voler gareggiare con me su questi cavallucci a dondolo, cadde all’indietro come un sacco di patate? Quanto abbiamo riso! Già, nonno, ora è lì, accanto a te. Vi siete amati per una vita intera, finché, ormai tanti anni fa, lui se ne andò. E ora siete di nuovo insieme.
E le serate d’estate passate a Siena da te le ricordi? Quando, per farmi divertire, spegnevi la tua sigaretta serale sul tronco del vecchio acero davanti casa, e mille lucine rosse partivano all’impazzata nell’aria o vivevano lucenti, quasi pietre preziose, incastonate nella corteccia. Poco più in là, accanto all’albero, crescevano le belle di notte, i tuoi fiori preferiti, che si aprivano proprio verso quell’ora, dopo che avevi finito di dar l’acqua al tuo diletto giardino e l’odore di terra bagnata si spandeva tutto intorno, fino alle foglie dell’acero, quelle stesse foglie che vedevo quando, in un tempo ormai remoto, mi mettevi sotto l’albero mentre curavi le tue piante; se vado indietro nella mia coscienza, al fondo di tutto, l’istante iniziale, il mio Big Bang, sono quelle foglie che oscillano al vento, sotto i miei occhi stupiti di bambino. Oscillano. Bel termine. Si adatta anche alle petunie davanti al mare, nella località dove eravamo soliti andare in vacanza io e te, fin quando le forze te lo hanno permesso. Fino a pochi anni fa, in realtà. Mi pare ancora di vedere il campanile della chiesa di quella piccola frazione balneare, con la lucina che, fin quando ero piccolo, si accendeva in cima alla croce quando le campane suonavano. E se ascolto bene sento ancora il fruscio delle onde, e l’odore delle petunie vicino al mare misto a quello del caffè che preparavi da sola, la mattina, nella piccola camera della nostra modesta pensioncina, mentre io ancora ero nel dormiveglia. Che gran sole che c’era sul mare! Come quello che batteva il pomeriggio d’estate a Siena, quando, ancora bimbo, riposavo accanto a te e a nonno nella stanza illuminata dalla lampadina azzurro tenero, che tanto mi piaceva. E io ti stringevo la mano, perché avevo paura di stare da solo; il cuore mi batteva forte, mentre respiravo nell’aria l’odore delle damigiane del vino che nonno metteva nello sgabuzzino lì accanto . Fuori, al suono delle cicale, ci sono ancora le campanule bianche che tanto amavo, così tenere e delicate, quasi fatte di ali di farfalla, così dimesse, tanto umili da riuscire a nascere solo sul ciglio della strada che costeggiava la nostra casa.
Quello stesso Sole che illuminava la Torre del Mangia quando passavamo sotto di essa, d’estate, quando ti accompagnavo in città, è la medesima luce che ci faceva riparare alla gelateria davanti al Monte dei Paschi (Monte dei Pascoli, come lo chiamavo io, nella mia lingua infantile); è lì era la gioia più grande perché tu ordinavi la tua coppetta nocciola e crema e io ti seguivo a ruota, e mi pareva di esser grande a scegliere i gusti che prendevi tu, e la gioia era aumentata dalla commessa che, conoscendoci bene, raschiava via tutte le nocciole dalla vaschetta e le metteva alla mia coppa, mentre tu, coi tuoi occhi brillanti, dicevi ridendo: “Mamma mia, quante nocciole!”
E ora che son seduto, quasi mi par di sentire gli effluvi della pasta e fagioli della domenica, che tanto allietava le mie papille, specie se era inverno e fuori infuriava il solito vento fischiante che tira, tira ancora, là dove tu vivevi. E ora son di nuovo lì, a casa tua. Rivedo il duomo, da lontano, e la Torre del Mangia che sbuca da dietro la collina: com’è bello! Se mi spingo fin lassù, vedo in basso piazza del Campo, con io e te che la attraversiamo, piccoli puntini sul rosso dei mattoni. Rialzando lo sguardo vedo piazza del Mercato, e io e te siamo ancora lì che camminiamo. Più in là si stende qualche campo, poi le mura di Porta Romana, poi, più in là, le belle campagne delle Crete, coi loro cipressi in filari e le loro strade bianche, i loro campi arsi sul cielo immenso; simili ancora oggi, come un tempo, alle immagini del Buon Governo custodite all’ombra della buona e protettiva Torre. E, se il giorno è chiaro e limpido, come piaceva a te, si vede il monte Amiata, dolce e pacifico nella sua bellezza inconsapevole. E ora sento in me una nuova forza, non ho più paura, non sono più triste, ho in me una forza che non avevo mai sentito, un’energia che mi viene dall’interno, di cui tu saresti fiera, che mi spinge a scavalcare l’Amiata con foga e ardore: al di là vi è la dolce Maremma, nella sua disarmante e serena semplicità e, più in là, quasi un miraggio alla vista, ma reale allo sguardo del mio spirito che rinasce, si stende luccicante il mare.

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progettogayforum
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Re: Non so che titolo dare.

Messaggio da progettogayforum » sabato 30 novembre 2013, 0:53

Sono proprio commosso! E' una delle cose più belle che ho letto! La senti nell'anima la presenza della nonna. Grazie di avere condiviso una cosa così bella e così privata.

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Yoseph
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Re: Non so che titolo dare.

Messaggio da Yoseph » sabato 30 novembre 2013, 1:03

mi dispiace molto per il dolore che hai provato, ma in tutto il racconto, a parte la parte riguardante l'amore non ricambiato riesco a vedere solo cose positive. Due persone, lo zio e la nonna, che purtroppo non ci sono più, ma che con il loro affetto sincero hanno sicuramente contribuito alla tua serenità e alla tua crescita interiore. ciò che sei lo devi anche a loro ed è il regalo più grande che ti potessero fare!

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Re: Non so che titolo dare.

Messaggio da barbara » sabato 30 novembre 2013, 10:24

caro, e^p+1=0, hai fatto rivivere in me il ricordo di mia nonna e della mia infanzia. Inutile dire che sto piangendo con te ... Tornare alle radici è doloroso, eppure così dolce . Sono radici amorose che porterai sempre con te e che ti hanno reso sensibile e forte. A volte le due cose sembrano inconciliabili, ma è proprio la formula che li unisce a creare meraviglie , come quella che mi hai regalato stamattina. Grazie!

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Blackout
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Re: Non so che titolo dare.

Messaggio da Blackout » lunedì 2 dicembre 2013, 1:03

Caro e^p+1=0 mi spiace davvero per il nuovo e grande dolore che ti ha colpito, così profondo era il vostro legame lo si capisce chiaramente da ciò che ti ha spinto a scrivere tutto ciò in maniera tanto intensa. Queste persone a te care non sono più materialmente vicino a te me esse vivono con te, vivono in te grazie agli insegnamenti che ti hanno dato, rendendoti quello che sei. Ti mando un abbraccio.
Il vero Io è quello che tu sei, non quello che hanno fatto di te. (P. Coelho)

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Re: Non so che titolo dare.

Messaggio da e^ip+1=0 » lunedì 2 dicembre 2013, 1:54

Grazie di cuore a tutti voi per le vostre belle risposte. :)
La cosa che ha impedito che cadessi in una depressione senza fondo, e che ritrovassi invece forze, mi è stata data proprio dal pensare a ciò che mia nonna e mio zio avrebbero voluto che io facessi in una situazione simile. Di certo non che mi chiudessi nella mia tristezza, ma che anzi per andare avanti prendessi energia da quanto essi avevano potuto darmi.
Ho bisogno di fissare i ricordi, perché invece che fonte di dolore diventino sorgente di forza. Come dice Barbara:
[/quote]
barbara ha scritto:Sono radici amorose che porterai sempre con te e che ti hanno reso sensibile e forte.
:)

normalgay
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Re: Non so che titolo dare.

Messaggio da normalgay » lunedì 2 dicembre 2013, 14:56

Ciao Identità di Eulero!
Ho letto quello che hai scritto e mi sono commosso. Oltre ad essere veramente emozionante il contenuto, riesci a trasmettere il respiro con la scrittura. Congratulazioni.
Anch'io avevo uno zio cui ero molto legato. Lui è morto un paio d'anni fa ed era ancora giovane. Lo stimavo tantissimo. Probabilmente ho studiato ingegneria per seguire le mie orme. La sua morte è stata davvero un duro colpo per me. Poi però mi sono reso conto che ogni santo giorno, per un motivo o per l'altro, lui mi torna alla mente. E ho ragionato su questa cosa: se non ci fosse la morte, non ci sarebbe nemmeno la vita. L'unico modo per sfuggirvi, è lasciare un ricordo e questo è, per me, il senso della vita. Nella mia mente mio zio vive sempre e mi pare che nella tua viva tua nonna. Loro ce l'hanno fatta: hanno lasciato un segno in noi. E' la cosa più bella...
Un abbraccio

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e^ip+1=0
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Re: Non so che titolo dare.

Messaggio da e^ip+1=0 » giovedì 5 dicembre 2013, 20:23

normalgay ha scritto: Nella mia mente mio zio vive sempre e mi pare che nella tua viva tua nonna. Loro ce l'hanno fatta: hanno lasciato un segno in noi. E' la cosa più bella...
Grazie delle tue belle parole, normalgay. Non so te con tuo zio, ma io mi accorgo che ciò che mia nonna mia ha lasciato (un certo senso etico, il coraggio, un amore sconfinato e tante altre cose) è racchiuso nei piccoli ricordi, in tanti episodi che ho di lei, più che in una singola sensazione.
è lì che sento che essa ancora vive. E probabilmente, come scrivi tu, è questo l'unico modo per sfuggire alla morte.

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