I RANDAGI

La realtà dei gay, storie ed esperienze di vita gay vissuta
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Gherardo
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RANDAGIO MINORE

Messaggio da Gherardo » domenica 15 agosto 2021, 15:49

Che ci faccio con un finocchio come te? Era questo quello che ti disse mentre tu dal letto ti rialzavi sudato e inerme. E con te trascinavi strinto nel petto quel dolore, già più volte soffocato, a cui non potevi dare alcuna voce. E non dovevi – chi ti ha dato il permesso? – essere dolce: non era roba da maschi, non è cosa da uomini. Ancora vive sono quelle parole nei tuoi occhi e nei rapidi movimenti delle braccia quando me lo racconti. Parole che nient'altro dicono che una miserabile e gretta umanità. E raccontavi con mani bagnate di pianto come molte ti eri spogliato e queste bestie al vederti soltanto più grande non trattenevano le risa. Urlavano che non era abbastanza grosso. Lui ti ha preso i fianchi. Ti ha posseduto. E finito il gioco, eri finito anche tu. Pronto ad esser sbattuto dalla porta, o con gran gentilezza mandato via. Pronto ad essere richiamato al prossimo bisogno. Non meno di un cane al fischio del padrone. Ridevano di te, ma non negarlo, è ciò che volevi: troppa era la solitudine, troppa la foga. E più grande di entrambe questa realtà nella quale non c’è di meglio. Non ci sono uomini migliori di questi. Facili bellezze. L’affetto, se c’è, dura il tempo di sudare abbastanza. Altrimenti al bando i baci, gli abbracci, ogni primitiva forma di rispetto: non ci si deve innamorare. Il tuo corpo potrà cambiare nel tempo: avere un aspetto migliore se lo vorrai e potrai — mentre l’animo lasciato a se stesso, più sarai cresciuto e più non potrai domarlo. Ungi le braccia e scolpisci i fianchi ma rimarranno luoghi marci, e tu indegno della parola di uomo, finché non ci sarà alcuna intimità dentro di te. Te che sei maschio e abbellito, figlio del tuo tempo, avido frequentatore di palestre, e dei luoghi dove ci si diverte al buio: oltre questo che hai? Non sei libero. Non possiedi te stesso. Pertanto non hai niente. Ami la tua schiavitù. Come i porci preferiscono il fango all’acqua pura. Ma l'essere liberi viene nella vita come in baratri, e acceca chi vive ad occhi chiusi, è qualcosa di terribile per chi vuole asservirsi. Non tutti gli uomini vogliono essere liberi. Ma tu ancora racconti, e piangi, e cerchi invano di trattenere le lacrime: tutta una vita, mi guardi, ti hanno trattato come un mostro. E ti meravigli che io sia il primo dopo trent'anni a non veder niente di orrendo in te. Ma sei un bel ragazzo. Un cuore c'è, oltre che un viso. E stretto a me con forza ti dico che è tempo di cambiare. Di mettere da parte il mondo. Di vincerlo. Perché puoi farcela. Sei molto più forte. Chi ha conosciuto il mondo ha trovato soltanto un cadavere, e per chi l'ha trovato, il mondo non è degno di lui.

Gherardo
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RANDAGIO MASSIMO

Messaggio da Gherardo » giovedì 19 agosto 2021, 19:40

Fuggire. Nient’altro era che fuggire. Ma per dove? Nei vicoli di Termini, addossato al cancello del Carducci, oppure forse sui Lungarni? Tornano quei momenti di svolta animale, in cui si voleva rompere la propria quarta parete. Era vita piena del suo negativo, ma neanche lontanamente a metà. Ora trovano interessante il non aver avuto luogo, quell’ingenuo considerare casa il petto di un uomo, uno qualsiasi, sconosciuto. Ma non capiscono. Come possono attrarre anche dei grandi dolori? Ci si ritrova, non lo sanno? immobili nei parchi con in mano un libro di poesie. Non ho voglia di farmi vedere dai passanti. Preferisco starmene a sentire il merlo e il dattilo che torna. Non mi va che un altro tizio lontano mi osservi. Non vedi che è vuoto questo teatro? Anche se da solo è abbastanza grande, mi inquieta. Ancora, ancora. Chiudo gli occhi ed entrano i raggi del sole fra le fronde. Non mi feriscono, però. Dovresti essere altrove Gherardo. Non è tempo di star qui a scrivere oziose storielle, dire del romano, del sardo, del sicano ed umbro. O forse meglio del lombardo, o dell’emilio, del friuliano, e di altri luoghi. Sono stati troppi questi amori. Eccede quando tornano in un istante il loro sapore, quello delle labbra, del sudore, o del corpo. Ricordare è gran cosa, ma scordare è meglio. Era tutto un fuggire. Un darsi troppo. Senza aver chiesto niente che le nudità dell’animo. Disarmati nel desiderio. Mi dicevi, intrecciando le tue mani di bimba nelle mie, che mettevo l’anima dovunque. Io sorridevo davanti l’erba dei Fori. Mi sembrava cosa grande. È stato soltanto fatale. Ma sorridiamoci ancora un po’. Non fermerai lo straripare dell’Arno con un orticello, né lo fermerà un cane, un portico variopinto, la mano che indica il cielo e quella che si rivolge al basso. È destino di chi ama diventare la cosa amata. Eroicamente e furiosamente. È tempo ch'io sia altrove. Ho amato troppo, antica bimba mia, non è dolce dirlo. Nessuno deve varcare la misura.

Gherardo
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I RANDAGI XXIV

Messaggio da Gherardo » lunedì 23 agosto 2021, 18:34

Espressione di ciascuna virilità sono le spiagge. Belle e gremite da uomini di ogni sorta. E bruni, e di carnagione chiara, neri, olivastri, con pelo addosso, o sbarbati, e calvi ma con lieve peluria sul viso, dalla pancia pronunciata, o le spalle rialzate, il fisico un po’ scolpito, magri e segnati sul petto dagli addominali. È difficile non voler far l’amore con tutti. Chi è brizzolato, chi è messo peggio per l’età che porta, chi pratica una disciplina, chi ne porta le cause addosso, chi ha il fisico da rugbista, chi ha una splendida barba, chi il pelo dietro o nessuno davanti. Smuove il desiderio la calura estiva, e fa piacere, perché è come starsene a leggere più romanzi, mettersi sulla sabbia e notare, osservare, scrutare con affetto la gente. Non c’è niente che non puoi trarre dagli altri e fare tuo. Bello è il padre di famiglia, il nordico con il duro petto, l’uomo che viene da solo abbronzato, i tatuaggi che porta il ragazzo, i giovani che a due a due arrivano con sguardi accesi. Cos’altro dovrei guardare? Splendido è il mare, ma molto più profondo è l'uomo. La mia Itaca non è un’isola, gremita di querce e pietre rosse: la mia Itaca è il viaggio. E così anche la gente. Ognuno ha una bella, o brutta, storia che vale la pena ascoltare. Questa è l’intimità più grande, che trapassa dal corpo. Non ci devono essere giudizi o scandalo per quello che uno tiene dentro di sé: presta ascolto con orecchie più fini, e abbandona dietro di te convenzioni o morali fondate su altre imbrogliate morali. L’etica la dà la natura. Il resto son costrutti, catenacci a cui non vale la pena asservirsi. Condannano il piacere, ma non insegnano ad amare: e il piacere più grande lo dà l'amore; scherniscono col nome di vizi e perversioni azioni che sono perfettamente naturali, e di cui gli uomini si nutrono nell’ombra, perché il temere, la vergogna, e il volgare giudicare sé stessi, conosco soltanto. Non c’è cosa più pura dell’uomo. L’anima, che è cosa eccelsa, non può che abitare in un’altra cosa grandissima. Perché sdegnarla? Tirarla in basso? Coprirla di fango? Fatti un giretto nell’orto di Epicuro, alcuni frutti sono degni della tue labbra. Ma chi seppe davvero capirlo quello zappatore? Difficile è far crescere qualcosa nel cuore della gente votata al proprio tornaconto personale. Eppure, diceva, non c’è cosa più sacra del corpo. Il dramma di oggi è che la gente non ha rispetto del corpo degli altri. Lo usa. Lo riusa. A proprio piacere. Ma il piacere vero nasce dalla reciproca condivisione. È imparare a soffrire con l’altro. Avere l’opportunità di toccare ed entrare nel corpo di uomo, o di una donna, è un bene inestimabile. Ma ne sei degno? Perché lo fai? È il voler amare, o il voler possedere? Non c’è niente di strano se hai fatto l’amore con molti. È la ragione dietro a questo che dirà tutto di te. Brami l’intimità, la complicità, l’essere, di un altro? O soltanto qualche parte del suo corpo? Perché davvero fare l’amore è difficilissimo: è non far vergognare l’altro delle proprie nudità, capirle, metterle da parte, ascoltarlo, frenare la sua autodistruzione, amare la parte che non è possibile amare. Sapete fare sesso, e terribilmente non sapete amare, non sapete neanche baciare. E i Greci lo sapevano meglio di noi, per loro che il verbo amare voleva dire anche baciare. È meglio tornarsene a quella selvaggia condizione umana che era in armonia con la natura e le sue cose. Non devi temere che cosa sei. Sei una cosa immensa che non è destinata a starsene chiusa chinata in una caverna. Sciogliti da tutto ciò che ti impedisce di crederlo. Devi, e puoi, essere un uomo migliore. A questo sei chiamato. Non c'è cosa più importante. Un graffito a Pompei diceva bene: salute! a chi ama, morte a chi non sa amare. E ancor più, morte due volte a chi vieta di amare.

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I RANDAGI XXV

Messaggio da Gherardo » martedì 24 agosto 2021, 22:25

Non si può sfuggire ad una famiglia violenta. Quando s'è bimbi eccoci nell'età del subire. Ci sono parenti che riempiono i figli di amore di affetto, ambizioni e venture possibilità, chi invece d'odio sputi e sangue. Si è disarmi ma si deve prendere presto l'oplita, difendersi alla bell'e meglio non facendosi schiacciare nel corpo, sul cuore. Non si sceglie. Nessuna cosa è scelta. Le cose che la gente dà per scontate sono enormi privilegi. Giudichiamo gli altri più per ciò che hanno avuto che per ciò che sono. Ci vorranno anni per ricostruirsi, o meglio, per accettarsi in rovine. Accettare i fregi addosso. E sorridere quando nel petto sale una voglia infame di piangere. Sorridere quando ti presentano alla famiglia e tu non hai da dire su nessuna famiglia. Tu non l'avevi. Neanche un poco. E bramavi, non negarlo, di farne una tua un giorno. Con figli, ed essere il padre che non hai mai avuto. Amare una donna che sa amare. Lasciarsi alle spalle un secolo ingrato, che ride dei nostri sogni, stupidi, bagnati di nessuna lacrima, ancora vivi in noi stessi.

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RANDAGI XXVI

Messaggio da Gherardo » domenica 29 agosto 2021, 1:12

Mi lasciate senza parole quando dite che i soldi e la fame di successo giustificano la fine di un rapporto. Di un rapporto di amore dite. Ma dove? Dov’è normale? — finisce sì, ma un rapporto di prevaricazione, invidie, di attese cucite addosso all’altro. Finisce un rapporto di possessione. Ecco cosa distrugge tutto dalla prima all’ultima cosa. Un veleno che annienta l’animo della gente. L’oro, il denaro, il prestigio sociale. Una volta un ragazzo, che mi era venuto dietro, dopo aver saputo che non avevo abbastanza soldi per andarmene nei gran ristoranti si è dileguato. E ce ne sarebbero tante di storie simili da raccontare, come negarle? Eppure un rapporto sano, degno di un nome del genere, è dove si vuole l’altro felice, e non altro. Non fatevi mettere addosso le impossibilità degli altri. Non fatevi dire che questi sono meri ideali che vivono nei libri, nei filosofi, in brevi attimi. Loro non hanno capito come amare. Non sanno amare senza avere niente in cambio, senza accettare l’incertezza che è tipica dell’amore. Le frazioni, i dissidi, che ne possono uscire. Ma si affronta tutto insieme: quand’è che una frase tanto umana come questa, tanto viva e normale, è diventata mitologica? — E se ci si lascia? pace. Ma vada male purché si combatta. È bello amare un ragazzo, è bello perderlo. Ci sono dolori che vale la pena di soffrire. Non fate come me, fate a meno dell’amarezza aspra per il cuore della gente. A crederle e a difenderle davvero le cose si rimane svegli la notte. Beato Democrito che se la rideva, appollaiato sulla cima di un monte, della vanità della gente. Qui viene soltanto da piangere. La normalità è diventata un ideale, un capriccio per pochi. Non è così. Non credete a chi vi frena e vi tarpa le ali. A chi vi dirà che siete troppo giovani, o troppo vecchi, per raggiungere il Sole. Non un solo istante. A chi vi dirà tu giudichi perché non eri nella loro situazione. Io ho abbastanza fiducia in me stesso per dire cosa avrei fatto. Io ho conosciuto me stesso. Ho preso le mie profondità i miei abissi, miserabili ed immensi, e li ho guardati negli occhi. Come potrei vivere senza conoscermi? Non ho temuto cosa avrei appreso. Rammarica terribilmente che a dire questo siano persone fidate? Amiche? Di cui si ha apprezzamento e rispetto. Però a conti fatti è vero questo, che ci si è salvati da soli. E resta l’incertezza, l’impossibilità di un dialogo, di una estrema corrispondenza con gli altri. Perché gli altri non conosco la musica che noi sentiamo. A loro non importava. L’ordine, la bellezza, non fanno denaro. Amarissima è la notte. Ma i libri qui attorno sono per la maggior parte testimonianze di tante altre notti amare vissute da altri. Testimoni che quello che c’è in questo cuore è stato in quello di altri. È notte ed io respiro ma non so dire, non so dire perché fate il possibile per essere infelici, e imitate uomini infelici, per vivere una vita che non è la vostra. Ride Democrito, ride ancora. E quanto inutile e bello è il suo riso.

Gherardo
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I RANDAGI XXVII

Messaggio da Gherardo » lunedì 30 agosto 2021, 13:06

Arrivano come mossi dalla brezza estiva certi malumori sul fare del giorno. Ma gli abissi devono rimanere in sé stessi. E l’inadeguatezza morsa e tenuta dentro. Non meno che cose vive i pensieri e gli istinti le infinite sensazioni ammarciscono dentro di noi. In modo assente e inutile mi lancio sulla seggiola. Non voglio sentire niente. Ci sono certe nature chinate, per modo e vita, a sentire più vive le malinconie, a non darsene spiegazione. Getto il telefono. Anche se mi cercano. E rido, amore, chi mai hai reso felice? Sono in pace con me stesso, ma non con le cose: massimamente come i brigantini che anche sul mare tempestoso rimangano brigantini. L’oceano distrugge, ma non è il caso: questo pungola. È come una voce che chiama dalle cose. Non voce ma lo strepito che sentiva Oreste. È invaso il mattino. Trovati la forza di mangiare, di non abbandonarti. Forse il lottare per avere le briciole strenua. Ma dà anche più onore. Prendi le vesti, gli studi, e va' fuori, e qualunque modo tu senta dentro, va' fuori e splendi. Imbellisce anche il dolore. Esser uomini è non far caso per la maggior parte anche a se stessi. Ci sarà un giorno la quiete. O forse davvero non ci sarà. Avremo almeno lottato. Non fummo altro. Non fummo codardi.

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I RANDAGI XXVII (II)

Messaggio da Gherardo » martedì 31 agosto 2021, 0:47

Unge le labbra il salmastro delle lacrime. Dall’appesa testa violacea son vivi i morti. E peggio di dardi saettati al cuore le mani putride tirano verso di te, a gridare perché tu? Sei vivo. Perché tu sei vivo? E non c’è nessuna risposta da dargli. Nessuna giustizia. Soltanto incatenato il senso di colpa di esistere. Non poter dire niente. Così i morti ammazzano i vivi. Ma come si può impedire ad uno di morire? Presa la decisione, accettata nelle viscere, nessuno ti riporta indietro. Nessuno può voltarsi. E va soffocato davanti ad altri il senso di colpa che rimane. Ad essere sopravvissuti alle proprie. E a quelle di altri. Anche davanti a chi ci ama. Non si vuol farsi vedere logorati così. Perché l’amore non può tutto. E la nostra impossibilità non può diventare quella degli altri. Ma davvero chi ci ama? — Chi ti ha dato, rammenti, ospitalità? Chi ha messo da parte l’ossesso di tuo padre e la sua violenza? Tutti hanno ceduto. Nessuno ti ha difeso. Nessuno ti ha voluto bene. Nessuno. L’affitto è troppo grande e del vuoto è una prova: lo urlano le stanze, i mattoni, le pareti, ogni cosa dice la stessa cosa. Ma ricordo quando gridavano come ad una donna stuprata che non mi avrebbe creduto nessuno. E ce l’ho fatta. Da solo strascicando dietro a me odi inveterati, maledizioni, anni spezzati. Dovrebbe esserci qualcuno stanotte? Oppure nessuno. Asciughiamoci il pianto notturno perché nessuno ci veda. E diamo un taglio a queste troppe nudità. Forse scarsamente servirà a qualcuno, a me non me viene niente.

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I RANDAGI XXVIII

Messaggio da Gherardo » domenica 5 settembre 2021, 14:48

Con suoni sempre più belli muovi le corde del tuo cuore. Sì che io non riesco a tornare in me stesso. E accendi sui neri baffi quel sorriso che tu baciando dici pari al sole. Mentre ancora le tue mani accompagni a parole più fiere e chiare del giorno. Baratri innominabili apri dentro di me. Ne è rapita la mia inquietudine che tu, trentenne Orfeo, quieti. E quanto basta ché ti lasci carpire gambe e petto alle tue aspre labbra. E poi prendendo il tuo volto con mani di padre, come acqua dall’imbrea fonte di montagna, su di me ti perdi. Io caccio goffo quel che di torbido resta in me. Le tambureggianti voci di spettro del passato. Chi mai sapeva, dici, che sarei stato nel letto del David. Ed io sorrido bimbo e penso, un giorno certo cambieranno le tue parole, altrove forse io sarò e tu pure, ma è vero adesso, perché non accettare la caducità dell’amore? Ti stringi al mio petto e maternamente ti tengo e più giocando con i tuoi biondeggianti capelli. Sesi amori, parli con una voce che è mossa dal sogno, sesi sa lugi de su sobi, qandu de mengiau sa lugi illuminara i mattasa e i frorisi. E brividi mi cingono come l’Ismeno gli altipiani beoti. Non dici più cose umane. E le mie mani intrecci alle tue e sfiori. Ma non tacere la voce di Barumini, non cessare di parlare in Sardo. Ormai la lingua dei miei padri è lingua di tutti, ma disprezza ti prego il Toscano, non lasciare perso l'idioma della tua terra. Chi parla in dialetto è un eroe per la sua bellezza e quella della sua gente. Non c’è niente di volgare. Lascia a me i Lungarni, riprenditi il Tirso, il Cedrino e il Taloro. Non abbassino più la testa i dialetti d'Italia. Te amu, sesi su sangui in su zugu, in su coru. È un vociare di maschio e di terra che la ragione spegne.

Gherardo
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I RANDAGI XXIX

Messaggio da Gherardo » mercoledì 8 settembre 2021, 22:21

Ti garbava venire più vicino, dopo aver ragionato coi tuoi compagni, per tornare a discorrere assieme. Io davo fugaci sorrisi, mentre tu eri lontano, nell’aver piacere di quel tuo cercarmi. Ché tu spesso chiedevi di me ad altri. E portavi un cappelletto verde che ti ricopriva la fronte. E parlavi, dicevi con splendidi occhi Sicani, degni figli della tua ciclopica terra di meridione, cose che ti facevano trapelare riso dagli occhi stessi. Erano, chi potrebbe scordarlo? fatti d’un nero immane, nei quali la maestà del mare si poteva vedere tutta. Ma che eri? bimbo dei Quattro Canti, ma tu non fosti niente. Non fosti amore, non potevi, e come? Non era questo dentro la tua natura. Ma è bello parlare anche di chi non poteva essere qualcosa. Ti accompagnai a casa un giorno e tu sperdutamente tra le vie ricordavi come con la moglie non andava bene, ed i figli erano figli. Potevano comunque far la vita più bella ma non felice. E dicesti, ricordo, mentre troneggiavano le statue sulle trabeazioni dei palazzi come da sempre avevi desiderato una donna. E quanto avrei voluto allora che tu, seppure da vile, mentissi. Perché sarebbe stata d’una gracile bellezza la bugia tua. Ma non mentisti, anima mia, e fu giusto così. A me d’altronde bastavano i tuoi occhi, berne quanto io potessi. E che tu possa tornare poi dalla moglie che ti ubriaca nella casa. Perché seguire infinite regole sociali e sposarsi? Non sei più nella tua terra ombreggiata, ma la tua vita è confisa in una latomìa. E la sposa non è che Dionigi. O ma perché fuggire la natura? E affidarle leggi e modi, usi barbari, che non le si confanno per niente? Fuggi con un’amante, fai qualche pazzia, torna a rivedere il Moro. Non facciamo altro che voler scappare da regole che accettiamo tutti i giorni. Peggio che tradire una moglie è tradire sé stessi.

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I RANDAGI XXX

Messaggio da Gherardo » lunedì 13 settembre 2021, 1:41

Tremiamo dentro alla notte quando ci raggiungono vividi e camminando i pensieri. E le cose si agitano tutte intorno alla nostra percezione. Ma come dire fermati al torrente che strepita in piena? Come afferrarsi le spalle e scuoterle? Dissipare il riflusso degli umori che governa la nostra vita? È nuda in piazza la mia coscienza. Perché non si copre con almeno un saio? Coprite quella volontà francescana di darsi troppo. Io piuttosto sono il lupo di Gubbio. Così mi sento quanto ti innamori di me e io non riesco a farlo. Certo che ti amo, ma amare ognuno dice secondo il proprio modo. E tutti hanno il proprio linguaggio sull’amare. Così da me tu chiedi soltanto il giorno, vorresti, vorresti, che io amassi te soltanto. E non riesco. Non so che facciano gli atomi in me, ma non sanno amare un uomo soltanto. Come una madre non ama un figlio meno dell’altro, e fra fratelli cresce e si rinvigorisce l’affetto, così sento io di amare. E tu lo sai rispettare ma non potresti accettarlo. Ti sei messo a bere nell’acqua cerulea del mare. Bellissima a dir tuo, la migliore. Ma salatissima imbevibile. Tu mi motteggiavi, ma io cercavo di dirtelo, ti innamorerai, anche tu, e non saranno mai più libere le tue parole. Accetti la possibile sofferenza, ma lo fai troppo spensierato. Non sai in che cosa trasforma l’amore negato. Che non corrisponde. E d’improvviso vorrei darti quello che non potrò mai. O dirti fuggi via, io ti lascerò: non è qui che troverai un fidanzato. Certo avrai le stesse cose ma con altro nome. Non c’è modo di spiegarsi. Dobbiamo accettarcelo. Si può amare più di una persona. Non è amore doppio: perché nella natura di certi individui l’amore è concepibile, in un modo che non può avere parole esatte, soltanto come una creatura che non ha forma. E così quando mi dici cose immense. E mi baci. E dici cose su cui ho visto altri piangere per avere. Altri piangere per non aver mai avuto. Ed io le ho, vergognosamente sento di averle. Perché non me le merito. E mi ritorna come vibrato lontano come mia madre diceva che fossi soltanto una puttana. Ed io lo ero perché non ero in grado di amarli. Così come volevano che li amassi. Davo l'anima, ma nel suo tracimare e muoversi come acqua data alle fiamme non potevo dare un solo amore. Non mi capirai, ed io neppure saprò sempre capire me stesso: accade, accade così, e mi tormento.

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