Dal mio punto di vista invece ci sono persone riflessive e profonde che proprio non ce la fanno ad adattarsi alla superficialità imperante diffusa in molti ambienti (non solo quello gay). Esistono associazioni, gruppi giovanili o anche solo comitive dove è possibbile un confronto serio, un dialogo autentico oltre che la possibilità di essere accettati nella proprio "particolarità" e luoghi in cui non ha senso neanche provarci. In questi ritrovi gay, per carità, probabilmente in un primo momento ci si sente anche a casa, liberi di essere se stessi fino in fondo e probabilmente un certo sentimento di "appartenenza" scatta pure, poi ci si accorge che (al di là di giudizio morali) tutto scorre troppo in fretta, tutto è già programmato e le relazioni sono sempre troppo corte per essere reali. Non so se mi sono accettato o meno, ma so che con certi ambienti non ho nulla a che spartire. Può essere utile conoscerli, comunque è una realtà da tenere presente, ma per quello che ho visto la gente e superficialotta e monotematica. Si tratta di impressioni di fondo, perché per carità non ho avuto modo di conocerne neanche mezzo. Proprio non dubito che sia gente dalle mille sofferenze e profondità, ma questso mi avvilisce di più, perché mi accorgo che è proprio il contesto che ti abitua a ragaionare in un certo modo.Dal mio punto di vista l'avversione ad uscire e conoscere nuove persone e ad intessere rapporti (parlo per esperienza personale) risiedono nella non-accettazione di noi stessi. Mi spiego meglio. Io dico a me stesso di essermi accettato o comunque riconosco di essere gay... il problema poi è: interiorizzo o esteriorizzo? Regredisco in me stesso o progredisco con gli altri?
Non so fino a che punto è gente che ha accettato la proprio omosessualità o piuttosto l'ha invece stereotipata, ammanzita in uno schema dal finale sempre noto. Insomma la vita è fatta di scelte e più gay o non-gay uno si ritrova a scegliere se vivere per cose che hanno un certo valore o cose che non ne hanno alcuno.