Le Petit Renard

Romanzi, racconti, poesie, canzoni e componimenti di ogni genere scritti dai ragazzi del Progetto
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Annabel Lee
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Le Petit Renard

Messaggio da Annabel Lee » lunedì 4 ottobre 2010, 15:45

Questa storia si è classificata prima ad un contest internettiano, ma anche se fosse arrivata ultima l'avrei considerata comunque una dei miei diamanti.
E' a tema omosessuale, ma credo che qui non ci sia bisogno di dire "se la cosa non vi garba, cambiate pagina" o almeno lo spero per la vostra integrità morale, dal canto mio, me ne sbatto allegramente da anni di quello che la gente pensa dei temi che tratto.

Una piccola nota però, ci tengo a farla prima: il professore dice di essere vecchio anche se ha solo trent'anni perché si sente vecchio e perché Lucien lo fa sentire vecchio con la sua infantilità. Nessuna offesa ai trentenni, figurarsi.

Le Petit Renard


[Per scrivere questa storia, sinceramente, ho impiegato una vita. Il Piccolo Principe mette in luce le differenze fra bambino e adulto, e il bambino ha attorno ai 5-6 anni, di carattere forte e deciso.
Mi sono chiesta, nella rilettura (sì, l’ho letto altre tre volte solo per non staccarmi dalla sua malinconia!), cosa un adolescente come me (credo, ormai fra nuovi adulti e adolescenti la differenza non è più così pesante!) si possa interagire sulle questioni portate da Il Piccolo Principe, come la solitudine, l’amicizia, la morte e il suicidio. Così si sono abbozzati da soli questi due personaggi un po’ noiosi, eppure abbastanza interessanti da permettermi di raccontare la loro storia.
Ed è la prima volta che lo penso davvero, ma i risultati di questo contest poco m’importano. Ho fatto il mio meglio.
12.29.2009]


«Ti ammiro», disse il piccolo principe, alzando un poco le spalle, «ma tu che te ne fai?»
E il piccolo principe se ne andò.
Decisamente i grandi son ben bizzarri, diceva con semplicità a se stesso, durante il viaggio.


Lucien chiuse il libro, cacciando via un brivido di freddo, ponderando se alzarsi per chiudere la finestra del cucinotto o restare lì a leggere un altro capitolo, infischiandosi dell’aria gelida che gli accarezzava di tanto in tanto le spalle e dell’orologio che ormai segnava le otto meno cinque.
Alla fine, furono i due occhi verde-azzurro a farlo sospirare e desistere da entrambi gli intenti, così si limitò a passare le dita fra quei capelli biondo miele, come sapeva piacesse all’uomo confuso che continuava a tenere la testa sul suo grembo.
Quando la pendola in corridoio suonò le otto, entrambi sospirarono e ponderarono, ognuno nel proprio intimo, di starsene a casa, così, per tutto il resto del giorno e, perché no, della notte.
« Siamo un po’ in ritardo. » Mormorò il ragazzo, mentre guardava con un piccolo sorriso la copertina del loro libro preferito. Il professore sospirò e si alzò in piedi, con un leggero brivido e un po’ di rammarico, annoiato profondamente all’idea di dover andare in classe e spiegare qualche nozione storica affinché gli alunni svogliati e annoiati più di lui riuscissero a scrivere qualcosa al tema d’esame e passare, per non rivederli più.
O, semplicemente, affranto dal dover lasciare il suo giaciglio mattutino. E lo guardò aspettandosi i suoi occhi nocciola puntati addosso, ma fu la frangetta troppo lunga a salutarlo, mentre entrambi mettevano i cappotti.
Stavano per uscire quando il ragazzo sbatté le palpebre, come quando si ricordava qualcosa di importante e si chiedeva per quale motivo se lo fosse dimenticato precedentemente, e corse nel cucinotto. Il rumore delle ante della finestra che sbatacchiavano fra di loro, gli riportò alla mente che avevano aperto appena un’ora prima per far passare il cattivo odore di pancetta bruciata, esperimento culinario andato decisamente male.
Il sorriso che Lucien rivolgeva al mondo quella mattina, notò il professore, era più timido; e si domandò cosa potesse tormentarlo così nel profondo. Eppure, lo salutò come tutti i giorni appena prima di aprire la porta, con uno sfiorarsi leggero di labbra, uno speciale buongiorno che aleggiava fra di loro e nel rossore di Lucien.

Quella giornata scolastica era più o meno volata via in fretta, più in fretta del solito. Il professore parlottava fitto ai tavolini con dei genitori dalle facce scure che male si trattenevano dall’alzarsi e andare ad urlare dietro al figlio. E lui parlava gentilmente, mostrando un tema – probabilmente disastroso – ma spiegando sicuramente che non era una mancanza così grave che sapete, signori, in fondo è solo storia, ed è un periodo noioso, ma all’esame potrebbe comunque servire. Lucien sorrise inconsapevolmente alla voce monotona del compagno che blaterava inconsistentemente, soprattutto sapendo che fra le mura domestiche si sarebbe lasciato andare a improperi nei confronti dei suoi svogliatissimi studenti.
Tornò a fissare negli occhi i suoi amici che ancora discutevano di ciò che meno lo interessava, come le ragazze, le moto, il calcio e i brutti voti ingiusti, che poi tanto ingiusti certamente non erano. E si chiese con leggerezza come avessero fatto a diventare tanto amici, ma forse, ripensando alla cara volpe, lui era solo stato addomesticato, come al solito. Solo, in quei particolari momento e frangente, gli stava tutto un po’ stretto.
«Quindi?» Marco e Giorgio lo guardarono per pochi secondi, al suo leggero «Ah...?» sbuffarono roteando teatralmente gli occhi, quasi stanchi delle sue continue distrazioni, dei suoi atteggiamenti scostanti e alienati.
«Volevamo sapere se stasera sei libero, per andare in disco!» Richiesero, con più gentilezza, e la risposta fu un leggero segno negativo del capo; poi, quando notò il professore alzarsi e tendere la mano ai due genitori con le facce sempre più scure, gli si avvicinò, scusandosi con i due amici con un sorriso colpevole, e lo sa già che prima o poi, continuando così li potrebbe perdere – e nonostante tutto fa davvero male il pensiero – ma non poté fare a meno di lasciare i propri piedi condurlo lì, da quel trentenne un po’ stanco, un po’ annoiato, e forse un po’ irritato dalla coppia con cui aveva appena discusso i risultati del loro figlio in quella che tutti considerano una materia inutile, senza né capo né coda.
«Posso vedere il mio voto?», domandò pacatamente, poggiandogli la mano sul braccio coperto dalla camicia, poi, quando incontrò i suoi occhi, sorrise dolcemente, «e quelli di Giorgio e Marco, se possibile.»
L’uomo sospirò riacquistando una punta di buonumore, d’altronde c’era il suo piccolo Lucien lì, appositamente per calmarlo. E solo lui riesce sempre a capire bene i suoi sentimenti, le sue espressioni, i suoi sorrisi e i suoi occhi. E gli fa piacere essere un libro aperto, almeno per lui, che lo guarda con il candore dei bambini.
«Un nove,» gli occhi del ragazzo si illuminarono e il professore si trattenne dal poggiargli sulle labbra un piccolo bacio di ringraziamento, per quei temi sempre curati e particolareggiati, davvero splendidi anche nella forma, ma sono in pubblico, a scuola, per di più, e Lucien gli stringe un poco il braccio, probabilmente trattenendo lui stesso quel desiderio di miele, «e due sette e mezzo.», concluse cercando con lo sguardo i due ragazzi interessati. Lucien annuì appena e ringraziò con un tremulo nella voce, che nascondeva tutto il desiderio di essere stretto fra quelle braccia forti, che lui, magrolino e femmineo, non avrebbe mai avuto.
«Ti do un passaggio a casa?» Domandò gentilmente il professore, con un sorriso accomodante eppure sincero, tornando ad essere il docente e rimettendo Lucien al suo ruolo di studente. Lui si limitò ad annuire, con tranquillità, per poi sbadigliare e nascondere la piccola bocca aperta ad ‘O’ dietro una delle mani piccole e affusolate. Il professore rise a quell’espressione buffa, ricordo lasciato dall’essersi addormentati oltre la mezzanotte, mentre il ragazzo leggeva e lui ascoltava.
Gioviale lo rimandò dai suoi amici, salutandoli distrattamente, mentre metteva i compiti nella borsa, pronto per andare alla prossima lezione, un po’ più risollevato nel morale.

Si sedette sul sedile grigio fumo della berlina del professore, facendo atterrare con mala grazia la tracolla sui sedili posteriori, occupati anche da pacchi di compiti, corretti e da correggere. L’occhiataccia dell’uomo lo imbarazzò, facendo assumere alle sue guance quel colore rosso che tanto piaceva al suo professore, che si ammorbidì e mise in modo l’auto.
Lucien accese la radio, sintonizzandola su un canale dove trasmettevano canzoni dolci e tristi, e si accorse troppo tardi dell’irritazione del suo compagno, che con un gesto nervoso spense l’autoradio.
«Perché no?» Domandò vagamente offeso, ma l’uomo non gli riservò che un’altra occhiata di profilo, senza distogliere gli occhi dalla strada. E solo allora Lucien gettò casualmente uno sguardo fuori, mentre sbuffava e tratteneva un piccolo ringhio. Incolonnati nel traffico, completamente fermi. Allora sospirò e tornò a guardare il cruscotto contenente CD e documenti. Stava per prendere l’album dei Thievery Corporation, e ritrasse appena in tempo la mano, ché il cruscotto fu chiuso velocemente, in uno scatto d’ira.
«Che cosa c’è?» Chiese, lievemente spaventato da delle azioni così inusuali. Lo stizzito mugugno che gli rispose lo fece desistere da ogni altra domanda e sprofondare nell’imbottitura dura del sedile, pregando di poter scomparire in quel preciso istante.
Pochi minuti dopo, quando il traffico fu più vivibile, il professore si passò una mano fra i capelli, a disagio, e Lucien non lo notò, troppo impegnato a fissare fuori, le macchine accanto a loro, andare a rilento, e anche negli altri abitacoli, tranne pochi casi, permeava un nervosismo quasi infantile, dettato dall’egoistica voglia di fare in fretta, e arrivare velocemente a casa, dalla famiglia.
Sospirò. Perché anche lui voleva correre? Nessuno dei due aveva una famiglia a casa, ad attenderli.
E arrossì al pensiero che in realtà l’avevano entrambi un famiglia, ma ultimamente della sua si dimenticava spesso, troppo spesso, e quella del suo compagno non l’aveva mai vista.
«Dove ti porto?» Domandò stancamente l’uomo, facendogli abbandonare la posizione contro il finestrino per poterlo guardare. E il cuore di Lucien si riempì di aghi, scoprendo tristemente che quel giorno sarebbe stato solo. Così scrollò le spalle, per simulare indifferenza, e borbottò un lieve «Casa mia» che fece male anche al professore.
Una berlina nera si fermò davanti al grande cancello in ferro battuto della villa dei due coniugi Demount. Al suo interno, Lucien si torturò ancora per qualche secondo le dita, indeciso se andarsene così, senza dir nulla, o restare, salutare, accordarsi per il giorno dopo... poi si ricordò che il giorno dopo sarebbe stato un mercoledì, e il professore non lavorava. Così si apprestò ad uscire, con il cuore pesante e una gran voglia di piangere e girarsi e dirgli di smetterla di avercela con lui per una stupida radio!
Ma lui fu più veloce e lo bloccò per un polso, prima ancora che riuscisse ad aprire la portiera.
«Lù, domani mattina vengo a prenderti.» gli sussurrò attirandolo a sé, per posargli un bacio sulle labbra, per tranquillizzarlo, conoscendo quanto quella casa gli stesse larga. Ma il ragazzo gli allacciò le braccia al collo, cercando un contatto più intimo, decidendo sul momento di stuzzicargli la bocca con la lingua, senza osare troppo, perché in fondo, un po’ di paura l’aveva anche lui, di quello strano rapporto che li legava.
Tenette gli occhi aperti e a pochi centimetri da quelli acquamarina dell’uomo, li vide pieni di sorpresa, quasi terrore.
E si staccò, e stupidamente non disse più nulla, uscì dall’auto, recuperò in fretta la tracolla e corse verso casa, spaventato da quello sguardo. E se avesse chiesto, quella volta, cosa non andasse nella loro relazione troppo platonica non avrebbe passato il pomeriggio sul balcone, ad aspettare il tramonto, e durante il tramonto, non avrebbe pregato che potesse durare all’infinito, e dopo, non avrebbe desiderato poterne vedere un altro.
Probabilmente, se avesse chiesto, non sarebbe stato solo, quella notte, in quel letto così scomodo e freddo, vuoto.

Quel giorno non andò a scuola. Appena sveglio inviò un messaggino col cellulare al professore, dicendo che aveva un po’ di febbre, di non passare, che comunque stava bene, sarebbe sopravvissuto.
Ma bene decisamente non stava. Aveva vagato per la casa buia tutta la notte, sospirando di tanto in tanto, quando il pensiero di spolverare e pulire lo colpiva, ché era troppo che non si curava della casa dei genitori, e che forse era anche il momento giusto per distrarsi. Ma alla fine desisteva, scacciando quel desiderio così.
Faceva freddo, più del solito, in quella casa. Così, dopo aver ricevuto la risposta del suo compagno, un impersonale ‘capito’, spense il cellulare e si rannicchiò sulla poltrona di suo padre, in quel momento probabilmente in ufficio, o con sua madre nell’appartamento a Parigi, e cominciò a leggere, senza averne veramente voglia, distraendosi più di spesso per fissare il fuoco crepitare e ricordargli il tramonto, con tutte quelle sfumature forti e che riscaldavano come quelle del camino, come le braccia del suo professore.
Fu solo verso le quattro del pomeriggio che la fame bussò alla sua porta, svegliandolo per lasciarlo impressionato a chiedersi quando si fosse addormentato.
Riavviò il fuoco non del tutto morto, testimonianza che avesse dormito poco, e subito dopo scese in cucina, trascinandosi sulle scale principali, svogliatamente soprattutto al pensiero di prepararsi un panino, optando poi per una cioccolata calda che potesse riscaldargli lo stomaco, dato che il cuore restava avvolto da un blocco di ghiaccio, che non pareva avere alcuna intenzione di sciogliersi.
Mescolò meticolosamente il latte e il cacao, riuscendo ad ottenere un misto denso al punto giusto e senza l’ombra di un grumo. Sì complimentò con se stesso, per poi notare come fosse avanzata quasi una tazza.
Che tristezza, si disse, se solo lui fosse con me! Questa cioccolata non andrebbe sprecata!
Gli occhi si riempirono di lacrime quando la sua stessa mente lo informò che, in realtà, della bevanda poco gli importava.

Erano quasi le cinque, e già si cominciava a vedere il rosa comparire qua e là, e proprio nel momento in cui stava per sedersi ad osservare il cielo una berlina fin troppo ben conosciuta, parcheggiò davanti al suo cancello. Il suo professore uscì e si appoggiò contro l’auto, guardandolo con un po’ di dolore sul volto ancora giovane. Si passò una mano fra i capelli, stancamente, quasi pensando a cosa dire, ma Lucien fece finta di non vederlo, fissando ostinatamente l’orizzonte lontano, ignorando il suo stesso cuore, che pareva impazzito.
« Sai... quando si è molto tristi si amano i tramonti...» recitò, dolcemente il professore, osservandolo, e lo vide perdersi l’ennesimo tramonto, quando scattò sulla sedia e gli corse in contro, probabilmente caracollando per le scale, schiacciando il pulsante per il cancelletto senza nemmeno accorgersene e aprendo il cancello per pura fortuna, prima di rovinarci addosso e stamparsi la rete metallica sul volto, rischiando di rovinare quel prezioso nasino all’insù, tanto tipico della sua famiglia da far pensare all’uomo che tutti i francesi lo avessero così.
Eppure Lucien arrivò vivo e incolume, e lo abbracciò stretto-stretto, quasi non volesse più vederlo andar via.
Il professore sorrise e lo strinse a sé, felice di quel benvenuto. Era stato il loro primo ‘litigio’ se così si poteva chiamare, e non aveva messo in conto il candore infantile del ragazzo, non aveva realizzato fino al momento in cui lo aveva visto bardato in cappotto e sciarpa, seduto in attesa di vedere il tramonto, quanto lo avesse fatto soffrire, perché d’altronde erano uno la famiglia dell’altro, e da soli non riuscivano più a stare, da un mese a quella parte, come se qualcosa fosse radicalmente maturato nel tempo, come se un certo fiore vanitoso ed egocentrico fosse sbocciato a loro insaputa, e ora pretendesse molte attenzioni, silenziosamente.
Il professore lo prese in braccio, sbuffando a sentirlo così leggero, ed entrarono in casa. Nel vasto salotto, lo poggiò sul divano in pelle, mentre lui lo guardava con gli occhi lucidi e il cuore che batteva all’impazzata. Lucien gli tese le braccia timidamente e l’uomo sorrise con una punta di tristezza, chinandosi per regalargli il loro primo bacio umido, che però, nonostante quell’accarezzarsi intimamente, non aveva perso nulla della sua innocenza, stupendo l’uomo.

Erano sullo stesso divano, il professore seduto, con il capo di Lucien sulle gambe toniche fasciate da dei blue jeans un po’ vecchi e scoloriti. Gli carezzava i capelli rossi, stringendone qualche ciocca fra le dita, giocandoci come poche volte aveva fatto. Lucien parlava inceppandosi qualche volta mentre lo guardava sorridere, per poi sciogliersi anche lui in un sorriso solare e riprendere a parlare a ruota libera.
Ma l’uomo, all’improvviso bloccò la mano fra i suoi capelli e lo guardò apatico. Lucien tacque e attese in silenzio, mentre un tremito gli scuoteva il cuore e lo stomaco si chiudeva, mentre la paura cominciava a serpeggiargli per le vene. Non poteva lasciarlo, non in quel momento, no.
Ma l’uomo sospirò, scosse il capo e tornò a passargli la mano fra i boccoli per poi, finalmente, spiegarsi.
«Ho avuto paura, ieri. Perché io sono vecchio, tu, invece, sei più giovane. E non sono i nostri interessi che cambieranno, a spaventarmi. Ho paura che, se mi avvicinassi troppo a te, rimarrei ferito quando te ne andrai, siamo così lontani.» Lucien si alzò, un po’ triste, e lo guardò direttamente nelle due acquamarina che si ritrovava negli occhi.
«Le renard non ti ha insegnato nulla, eh?» Domandò usando un po’ della sua lingua natia, comune ad un certo aviatore, per fargli capire a che volpe si riferisse, con un sorriso, e osservò il volto dell’uomo farsi confuso. Allora spiegò: «Ho detto, chiesto, se la volpe non ti ha insegnato nulla.» ma la confusione dell’uomo, lo sapeva bene, non veniva dal suo francese.
«E’ lei ad insegnare al piccolo principe cosa significhi addomesticare, e noi ci siamo addomesticati a vicenda, e quando ognuno prenderà la propria strada piangeremo. Ma almeno, avremo amato e piangeremo dei momenti felici.» Sussurrò, sfiorandogli le labbra con le proprie, un po’ triste, ma deciso a guardare avanti e sperare che quel giorno in cui il principe aveva abbandonato la volpe, per loro non giungesse mai.
Il professore sorrise, approfondendo delicatamente il bacio, assaporando quel sapore dolce –e doveva aver mangiato della cioccolata, perché davvero sembrava aver quel sapore!- e lo strinse a sé, pregando per la stessa medesima cosa.

« On risque de pleurer un peu
si l'on s'est laissé apprivoiser... »

*




* «Si arrischia di piangere un poco se ci si è lasciati addomesticare...» E’ la frase che ho scelto, l’altra (quella del tramonto) è stato un caso, mentre la citazione all’inizio, si capisce essere la lettura del libro.

Note finali: Questo forum ammazza la mia graficità. Mi sembra quasi un'altra storia senza tutta l'impostazione grafica che c'è dietro =S
Comunque, so che sembra poco reale come racconto, ma è proprio questo che amo. E dire che amo una mia storia, nonostante tutti i difetti che ha, è davvero una cosa incredibile di per sé, quindi fatemi sapere cosa non va, per poterla migliorare ♥
E perdonate se l'ho postata tutta assieme ma mi rifiuto di spezzettarla *riot*

Bacioni, Ann.
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Re: Le Petit Renard

Messaggio da bluray61 » lunedì 4 ottobre 2010, 19:05

che invidia ragazza mia!
e' un bellissimo racconto Annabel,credo che qualche leziosita' di troppo andrebbe sfumata,ma la poesia che pervade tutto il racconto e' magica, grazie x questi 10 minuti di perdita di realta' che mi hai donato e mi raccomando postane altri (almeno finche' la lettura dei tuoi racconti sara' gratuita :lol: )
Luigi
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Re: Le Petit Renard

Messaggio da Annabel Lee » lunedì 4 ottobre 2010, 19:24

bluray61 ha scritto:che invidia ragazza mia!
e' un bellissimo racconto Annabel,credo che qualche leziosita' di troppo andrebbe sfumata,ma la poesia che pervade tutto il racconto e' magica, grazie x questi 10 minuti di perdita di realta' che mi hai donato e mi raccomando postane altri (almeno finche' la lettura dei tuoi racconti sara' gratuita :lol: )
Luigi
Grazie <3
Diciamo pure che ero contaminata da "Il Piccolo Principe", a parte altri 2-3 racconti simili tutti gli altri sono molto più 'terreni' diciamo.

Argh, mi hai fatto un pessimo augurio, sai? xD
Spero vivamente di riuscire a pubblicare un giorno, se già parti così mi demoralizzo xD
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Re: Le Petit Renard

Messaggio da bluray61 » lunedì 4 ottobre 2010, 19:28

Ma sciocchina io ti auguro vivamente di diventare la nuova Sveva Casati Modignani!
(magari la odi e ho fatto un'altra iperdonabile gaffes!)
sinceramente Annabel scrivi veramente bene.
ciao
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Re: Le Petit Renard

Messaggio da Annabel Lee » lunedì 4 ottobre 2010, 19:31

bluray61 ha scritto:Ma sciocchina io ti auguro vivamente di diventare la nuova Sveva Casati Modignani!
(magari la odi e ho fatto un'altra iperdonabile gaffes!)
sinceramente Annabel scrivi veramente bene.
ciao
Grazie, penso che nessuno capisca quanto un commento possa far bene all'autostima di una scrittrice a tempo perso, tranne la stessa ♥

La Sveva Casati Modigliani non la conosco se non di nome, per cui niente gaffe <3

ciao ~
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Re: Le Petit Renard

Messaggio da bluray61 » lunedì 4 ottobre 2010, 19:46

Allora se vuoi farti un idea di chi e' ti consiglio "Qualcosa di buono",credo che la Casati Modignani sia una lettura piu' da stagionati quasi frollati come il sottoscritto,ma se ti ti va ti confrontare il tuo stile con quello di questa signora della Milano di una volta,prova a violentare la ritrosia verso un genere che puo' non piacere ma che ha il pregio di essere scritto in un piacevole italiano.
riciao Luigi
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Re: Le Petit Renard

Messaggio da musicheart » lunedì 4 ottobre 2010, 20:12

Un racconto davvero stupendo *.*
Sono senza fiato e vorrei piangere per tutta la notte osservando la luna, ora desidero solo poter sognare... Grazie per aver postato qualcosa di tanto fantastico =D
Sono più grande di un giorno fa.
Migliore del me di un'ora fa.
Ma mai mi sentirò perfetto.
Carmy.

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Re: Le Petit Renard

Messaggio da Annabel Lee » lunedì 4 ottobre 2010, 20:47

bluray61 ha scritto:Allora se vuoi farti un idea di chi e' ti consiglio "Qualcosa di buono",credo che la Casati Modignani sia una lettura piu' da stagionati quasi frollati come il sottoscritto,ma se ti ti va ti confrontare il tuo stile con quello di questa signora della Milano di una volta,prova a violentare la ritrosia verso un genere che puo' non piacere ma che ha il pregio di essere scritto in un piacevole italiano.
riciao Luigi
vedrò se lo trovo e se m'ispira, anche se io vado ancora sul più stagionato, visto che oltre a Fenoglio non vado (Seconda guerra Mondiale). Vedrò, grazie del consiglio!
musicheart ha scritto:Un racconto davvero stupendo *.*
Sono senza fiato e vorrei piangere per tutta la notte osservando la luna, ora desidero solo poter sognare... Grazie per aver postato qualcosa di tanto fantastico =D
Grazie a te per aver recensito così! Sono felice che ti abbia messo in questo 'stato' ♥
(E per avermi dato l'idea che stavo perseguitando da ore per una dannata fic *O* passare la notte davanti alla luna, è così canon, perché non ci ho pensato?!)
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Re: Le Petit Renard

Messaggio da guy21 » lunedì 4 ottobre 2010, 21:31

si bel racconto davvero!
diciamo che anche io son uno scrittore dentro!
da piccolo mi piaceva molto fantasticare e inventare per questo dopo ho incominciato a scrivere la storia o storie che avevo in mente in realtà.
dopo però mi son fermato non so per quale motivo!
mi piacerebbe molto scrivere dei racconti miei inventati ma credo che non ne avrei il tempo e sopratutto io di solito non rileggo le cose che ho scritto le lascio così come sono per cui sarebbe un pò schifoso da vedere e da leggere!

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Re: Le Petit Renard

Messaggio da bluray61 » lunedì 4 ottobre 2010, 22:56

Ok Annabel,allora io mi impegno solennemente a leggermi "il partigiano Johnny" iniziato due volte ma mai finito(sai quando ti prende quella sensazione di stanchezza e non riesci a continuare la lettura), adesso che so che una lettrice di Fenoglio scrive le bellissime frasi che hai scritto sicuramente riusciro' a finirlo :D.
Questo forum sta' diventando ogni giorno una fonte di nuove scoperte e forse riusciro a colmare un pochino la mia smisurata ignoranza!
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