"Omosessualità di papi, cardinali e sacerdoti" di C.Rendina.

Il rapporto fra tematiche gay e religiose, nella vita di sempre
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Tom
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"Omosessualità di papi, cardinali e sacerdoti" di C.Rendina.

Messaggio da Tom » venerdì 19 aprile 2013, 17:13

Qui di seguito riporto un paragrafo del libro "I Peccati del Vaticano" di Claudio Rendina, tratto dal capitolo "Lussuria". Lo trovate alle pagine 154-159.
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Omosessualità di papi, cardinali e sacerdoti.

L'omosessualità o sodomia è considerata dalla Chiesa un peccato contro natura condannato da Dio nella Bibbia, ma papi, cardinali e sacerdoti l'hanno praticata e la praticano. Sulla omosessualità nella società ecclesiastica mancano documenti precisi per quanto riguarda il Medioevo; anche successivamente la Chiesa tenderà a occultare le notizie al riguardo, non riuscendo più a farlo solo a partire dalla fine del Novecento. Nei primi secoli si tratta solo di voci e comunque non se ne sa nulla prima dell'epoca rinascimentale, quando affiorano accuse nei confronti di alcuni papi. A cominciare da Sisto IV in riferimento ai suoi due nipoti, il cardinale Pietro Riario e Girolamo Riario, insignito del titolo di conte di Imola nel 1471. Infatti il perverso cronista Stefano Infessura insinua che i due hanno offerto il loro corpo alle voglie di sodomia del papa. E di rimando Giovanni Antonio Campano rinnova le accuse in senso più ampio in un epitaffio per il papa, scritto quando Sisto IV è ancora vivo:

Piangano il papa, Salviato, Ciresia e Agnella
l'uno fu ruffiano, l'altra puttana, l'altro cinedo.


Là dove, a parte il lenone e la meretrice in veste di cortigiani, cinedo è propriamente l'effeminato che subisce la sodomia; senza contare che con la cortigiana Ciresia entrerà in rapporto lo stesso Pietro, nel contesto della corte che il porporato organizza nel suo lussuoso palazzo cardinalizio.
Più specifiche le accuse di sodomia rivolte a Giulio II. Così il diarista veneziano Girolamo Priuli scrive che il papa «Conduzeva cum lui li sui ganimedi, id est alcuni bellissimi giovani, cum li quali se diceva publice che l'havea acto carnale cum loro, immo che lui hera patiente et se dilectava molto di questo vitio sogomoreo, cossa veramente abhorenda in chadauno». E Martin Sanudo, diplomatico veneziano, scrive perfino un sonetto sulla vita omosessuale del papa, collegandola al suo amore per il vino:

Ritorna o padre santo al tuo San Pietro,
e stringi el freno al tuo caldo desire,
che, per dar in segno e poi fallire,
reca altrui più disonor che starsi adietro.

Per strali e lanze di carne e di vetro,
el Bentivojo non vorrà partire,
possa che intenda, che non poi finire,
benché sia chi te spinge ognor da retro.

Bastiti esser prò visto
de Corso, de Tribian, de Malvasia,
e de' bei modi assai de sodomia;

et meno biasmo te fia
col Squarzia e Curzio nel sacro palazzo
tenir a bocha il fiasco, e in culo il cazzo.


Peraltro Giulio II ha il favorito nel bello e corrotto Francesco Alidosi, già suo amante e segretario quando era cardinale nella legazione di Avignone. Lo ha elevato alla porpora nel 1505 e gli ha assegnato il compito di gestore delle casse pontificie, nonché la legazione di Bologna. L'Alidosi abita in Borgo nel palazzo di famiglia del papa, ovvero l'odierno palazzo dei Penitenzieri, che è in prossimità del palazzo apostolico, ma il suo impegno di legato lo porta a vivere ben poco a Roma, così che le manifestazioni di affetto tra i due sono ormai sempre più rare. Oltretutto si interpone tra i due il nipote di Giulio II, Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino e capitano generale della Chiesa; odia l'Alidosi e ritiene che sia di ostacolo per la sua affermazione.
Il duca di Urbino rompe ogni indugio per eliminare l'Alidosi, e il 7 ottobre 1510 lo arresta con l'accusa di intrattenere una corrispondenza con i francesi in guerra con il papa. Lo conduce in catene da Modena a Bologna, ma il papa impone al nipote di liberare il suo Francesco, assegnandogli oltretutto la carica di vescovo di Bologna. L'Alidosi è convinto che il papa straveda ancora per lui e cerca di ottenere un altro privilegio, la signoria di Imola, già proprietà della sua famiglia; ma la risposta è negativa. L'Alidosi è più che mai deciso a resistere dentro Bologna, come fosse un personale possedimento, all'assalto dei francesi che vogliono consegnare la città ai Bentivoglio, i feudatari della città. Ma gli stessi bolognesi si rifiutano di obbedire agli ordini del legato e si sollevano in massa, distruggendo anche una statua di Giulio II realizzata da Michelangelo.
L'Alidosi, terrorizzato, fugge mentre nella città liberata entrano i francesi con i Bentivoglio, e si rifugia presso il papa a Ravenna, rovesciando sul nipote di Giulio II la colpa della disfatta. Il papa crede al suo favorito, e lo incoraggia ad andare a riposarsi per ritemprarsi dal terrore provato, e per evitargli d'incontrare il nipote. Anche Francesco Maria raggiunge il papa, e accusa d'inettitudine l'Alidosi, ma viene travolto da una serie di improperi e minacce di confisca dei beni, finendo cacciato dal palazzo. Ma il duca, mentre si allontana incontra per strada l'Alidosi a cavallo di una mula; lo sbalza di sella e lo uccide. Per Giulio II è una tragedia: piange e urla il nome del suo favorito per ore e si vendica sul nipote. Lo spoglia di tutte le cariche, permettendogli solo di abitare a Roma, ma dietro il pagamento di una cauzione.
Un cardinale sotto accusa di omosessualità nel 1559 è Carlo Carafa, figura di spicco del nepotismo familiare, dedito insieme ai fratelli a «quel peccato così abbominevole in cui non fassi alcuna distinzione di sesso mascolino e femminino», come lo definisce lo zio Paolo IV, quando lo viene a sapere. Si tratta di orge che si svolgono nella vigna di Trastevere, sotto la regia dell'altro cardinale Vitellozzo Vitelli, che viene subito trasferito nella sede vescovile di Osimo nelle Marche. Anche i nipoti del papa vengono cacciati da Roma, ma si salvano dal carcere e dal Sant'Uffizio, dal quale saranno invece giudicati per l'uccisione della moglie di Giovanni Carafa.
Peraltro sulla Chiesa di Roma nel Cinquecento sembra incombere il vizio dell'omosessualità, se nel 1580 lo scrittore Michel de Montaigne parla di Roma come «città bastarda» all'insegna di una corruzione libertina tollerata dal papa. Tanto che nella chiesa di San Giovanni a Porta Latina è sorta una confraternita di omosessuali che arrivano a sposarsi durante la messa «attenendosi alle stesse cerimonie che si usano per le nozze: si comunicano insieme, leggono il medesimo vangelo nuziale e, poi, dormono e abitano insieme».
Ma l'ecclesiastico più invischiato nell'omosessualità si incontra ai primi del Seicento, nella persona del cardinale Scipione Caffarelli, figlio della sorella del papa Paolo V Borghese, che lo ha adottato assegnandogli il proprio cognome ed elevandolo alla porpora nel 1605. Ricchissimo, concentra nelle proprie mani, oltre alle ville all'interno di Roma e nei dintorni, più di ottanta casali sparsi nella campagna romana, e una collezione di opere d'arte per la sua galleria, la Galleria Borghese, messa insieme anche attraverso appropriazioni piratesche. L'opera d'arte simbolica della sua omosessualità è la statua dell'Ermafrodito. Per ammirarla opportunamente, il porporato provvede a far scolpire da Bernini un giaciglio con un materasso, sul quale gli si mostri teneramente abbandonato quando apre l'armadio in legno, realizzato per farlo apparire in uno scenario seducente ai suoi occhi e agli occhi dei suoi più intimi amici.
E a proposito del cardinale, del suo uomo di fiducia, Stefano Pignatelli, e dell'avvocato concistoriale Pietro Campora, suo segretario, a Roma si parla di ménage à trois. È una situazione scandalosa, e lo conferma in qualche modo in una lettera il cardinale Giangarzia Millini, riferendo che Stefano Pignatelli e Pietro Campora, «governano il Borghese». Come scriverà Gaetano Moroni, Scipione, «ricordevole dell'affetto di Stefano, l'invitò a Roma e l'ammise nella propria corte, dove si acquistò tale ascendente sul cardinale, che questi in tutto si regolò co' suoi consigli. Tanto bastò perché l'invidia e la gelosia de' cortigiani lanciasse contro di lui maligne e velenose calunnie, e provocarono cardinali e ambasciatori per rappresentare al Papa essere Stefano pieno di detestabili vizi, e per l'onore del nipote doversi onninamente [completamente] allontanare. Paolo V lo fece sloggiare dalla casa del cardinal Scipione. Questi però conoscendone l'innocenza, raddoppiò il suo amore per l'oppresso, anzi soggiacque a grave malinconia per la sua disgrazia, e si produsse lunga e pericolosa malattia».
Solo quando Pignatelli accorre a Roma per "curare" l'amico Scipione, il cardinale riesce a guarire. Il papazio capisce allora saggiamente che per controllare Pignatelli gli conviene cooptarlo: così gli fa indossare l'abito sacerdotale. Ma subito dopo Scipione convince lo zio a dare a Stefano anche la porpora cardinalizia, col titolo di Santa Maria in Via. Accade poi che il cardinale Pietro Campora si ritira nel suo arcivescovado di Cremona e Stefano diventa l'unico amico di Scipione a Roma. E la liason tra Stefano e Scipione assume definitivamente l'assetto di un matrimonio, fino alla morte del Pignatelli, che avviene il 13 agosto 1623. Gli viene concessa una degna sepoltura cristiana a Santa Maria sopra Minerva, nonostante fosse «homo di assai basso legnaggio», secondo il diarista Giacinto Gigli. Scipione vive altri dieci anni, solo con il suo Ermafrodito, fedele al ricordo dell'amico; muore il 2 ottobre 1633, e viene sepolto con tutti gli onori nella cappella Borghese a Santa Maria Maggiore.
L'omosessualità nel Settecento è presa fortemente di mira dalla Chiesa e così si maschera con la galanteria. Gli ecclesiastici si nascondono nelle vesti di abati gaudenti, cicisbei che celano la loro natura offrendosi alle dame come cavalieri serventi, e nello stesso tempo si dedicano ai loro amori sodomiti. E così travestiti vanno ovunque, alle feste dei nobili, al teatro e ai caffè. Per questo nel 1775 a Roma un editto del cardinal vicario «circa la vita e l'onestà degli ecclesiastici» ammonisce i prelati di «evitare riunioni mondane e di trattenersi a lungo nei caffè e nei teatri». Li richiama inoltre all'osservanza dei sacri canoni, proibendo anche di indossare «abiti di tutt'altra foggia e colore introdotti per loro comodo da secolari e adottati pur troppo dagli ecclesiastici con scandalo de' tinìmorati».
Lo stesso editto è uno spunto per un gran numero di pasquinate. Infatti ecco circolare una Supplica dei preti al papa ad effetto di mandarsi tutti li frati alla guerra contro il re di Prussia, Federico II; là dove non si tratta di una spedizione militare ma sessuale, in riferimento alla omosessualità attribuita al sovrano. E a essa fa seguito una Risposta dei frati per la supplica fatta ad effetto di mandarli alla guerra , nella quale l'accusa viene ritorta sugli abati. Vi si legge, tra l'altro, che la sera a piazza Colonna, c'è la calca di monsignori e abati

di scarpini ben calzati,
in camici ed in corpetti,
alla vita molto stretti,
poiché, dandosi occasione,
fanno il salto del montone.


Così viene a galla l'omosessualità degli abatini mascherati.
L'Ottocento invece mette nuovamente la censura alla diffusione di notizie relative a ecclesiastici omosessuali, e in mancanza di notizie certe è solo ipotizzabile che la sodomia sia sempre operante nelle segrete dei conventi o nella sale damascate dei prelati. A documentarla è tuttavia sufficiente un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli del 1833, Er festino de ggiuveddì ggrasso, che descrive un festino carnevalesco nel convento dell'Aracoeli, dove, ha commentato Marcello Teodonio, «strane metamorfosi avvengono nel buio» e «regna una sordida allegria, un eccitato alternarsi di balletti e di accoppiamenti da parte di frati».

Tra ttante secchità, ttra ttanti ggeli,
Essenno nescessario un po' de callo,
Ggiuveddì a ssera sc'è un festin de bballo
Drento a la frateria de la Resceli.

Dove stroppieno in Coro li Vangeli,
fra Ffottivento e 'r Padre Bbuggiarallo
accooppieranno una gallina e un gallo
tra li frati pelosi e senza peli.

Accoppiati un patrasso e un fratiscello,
s'uprirà a ssòno d'orgheni er festino
co la lavannarina e 'r saltarello.

Se bballerà ttutta la notte, inzino
ch'er Generale a ssòn de campanello
rifarà tutti maschi a mmatutino.


Il sonetto di Belli offre un'immagine significativa del peccato di omosessualità degli ecclesiastici, proprio per il luogo evocato dal poeta in cui si verifica, il convento. Che potrebbe essere anche l'abitazione dei sacerdoti in una chiesa, e in ogni caso si tratta sempre di ambienti chiusi da cui mai usciranno denunce, perché il peccato di omosessualità tra gli ecclesiastici è verosimilmente praticato in maniera consensuale, condizione che determina il silenzio da parte di coloro che sono coinvolti. Così fino a oggi. Senza possibilità di poterla pertanto raccontare.
"La vita giusta è quella ispirata dall'amore e guidata dalla conoscenza"
(B.Russell)

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