Amore come identificazione?

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Alyosha
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Amore come identificazione?

Messaggio da Alyosha » domenica 19 febbraio 2012, 3:36

Caro Project questo post sarà stranissimo te lo preannuncio :). Volevo mandarti una mail ma poi ho pensato che forse l'argomento può interessare tutti. In una tua replica avevi accennato all'amore omosessuale come identificazione e quello etero come complementarietà. Questa cosa mi incuriosiva molto. Ti spiego, tralasciando il fatto che i tutti questi anni mi sono convinto di non sapere amare e che quasi mi ero rassegnato all'idea. Questa cosa che hai detto m'ha fatto scattare il pallino... Nella mia vita ho sempre avuto amicizie maschili preferenziali, quasi di rito quando entro in un contesto nuovo mi trovo sempre il mio amichetto e me lo porto dietro per un pò. Per me questo tipo di amicizie sono sempre state valvole di sfogo, rispetto a rapporti di coppia disastrosi, confusi e angoscianti, luoghi dove sentirmi libero e rilassarmi. Mi colpisce molto il fatto che sono rapporti esclusivi. Cioè sono proprio a periodo, ma mono relazionale da questo punto di vista, cioè ho tanti amici cui voglio bene e poi il mio amico preferito del momento. Mi ha sempre colpito la forte componente imitativa, cioè se la persona mi sta simpatica, tendo proprio a prendermi le movenze, la parlata, modo di fare e persino di ragionare. Anzi adatto proprio il mio ragionamento per renderglielo simpatico o comunque compatibile col suo. Da piccolo pensavo dipendesse dal fatto che non avessi carattere (forse in parte c'è in che questo, non so dire) e ci stavo pure piuttosto male. Scrissi allora "i camaleonti" proprio avendo in testa tutte ste cose. Poesia che tra l'altro rileggendo a distanza di anni, m'aveva particolarmente sorpreso, perché sembrava piuttosto il manifesto della mia omosessualità. A parte però il fatto che più in là negli anni ho capito di avere il mio bel caratterino e che senza personalità non lo ero affatto, ho realizzato che in realtà non facevo questa cosa con tutti, ma appunto con le persone che mi stavano "simpatiche", che mi piacevano per qualche cosa. Tieni presente che tranne qualche raro caso non c'era attrazione fisica, che di uno in particolare ai tempi capii proprio che in realtà gli volevo bene in modo speciale e di un altro una volta provai a masturbarmi pensando a lui, ma rifiutai l'idea quasi subito di presenziarlo nelle mie fantasie (che erano sempre di volti anonimi, mai di persone che conoscevo).
Non so se ha senso quello che sto per formulare, ma il tuo discorso sull'amore come identificazione mi ha evocato tutto questo e volevo capire se centra qualcosa o non centra nulla.
Ti faccio questa domanda non perché mi interessi nei fatti cambiare il senso di quelle amicizie, perché comunque anche se adesso rivedendole respiro qualcosa di strano, per me restano amicizie, ma solo perché se fossero innamoramenti malcelati, potrei dire a me stesso tante cose nuove. Cioè veramente sarebbe tutto sorprendente per me, perché scoprirei dentro me proprio un senso completamente nuovo da dare all'amore (amore proprio di coppia intendo). Anzi a dirti il vero scoprirei un senso, visto che sta parola fino ad adesso è stata la grande sconosciuta per me. Mi rilasserebbe molto sapere che in realtà innamorarmi è la cosa che mi riesce più facile, visto che lo faccio praticamente da sempre, riuscirei anche a trovare dentro me dei punti di riferimento importanti, per orientarmi nelle storie che verranno. Oddio dall'altro se scoprissi questo meccanismo sarebbe tremendo perché erano tutti stra etero, però insomma...
Non so neanche se sono riuscito a formulare in maniera chiara la richiesta. Ma insomma mi interesserebbe la tua opinione in particolare e ovviamente anche quella di tutti quelli che si sentono di avere qualcosa da dire in proposito. Grazie

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Re: Amore come identificazione?

Messaggio da progettogayforum » domenica 19 febbraio 2012, 19:09

Immagine

Ciao Boy-com,
permettimi di partire da un’analogia di carattere chimico-fisico che, secondo me si presta ad introdurre il discorso. L’energia potenziale di un corpo in un campo di gravità come quello terrestre in cui viviamo è proporzionale all’altezza del corpo, per portare un corpo in alto si compie un lavoro che viene immagazzinato sotto forma di energia potenziale nel corpo e può essere restituito come energia cinetica quando il corpo cade dalla posizione più alta per tornare a quella più bassa. Tutti i copri hanno la tendenza naturale ad occupare le posizioni più basse che possono raggiungere, cioè a collocarsi al minimo livello possibile di energia potenziale. Osservando la curva della figura immaginiamo di avere un corpo nel punto A, punto di minimo di una curva (un vincolo) sulla quale il corpo può muoversi. Se il tratto di curva da A a C non avesse un massimo ma fosse costantemente decrescente il corpo scivolerebbe naturalmente nella posizione C e vi resterebbe stabilmente perché il punto C sarebbe per esso il punto più basso raggiungibile. Se invece tra A e C ci fosse un punto di massimo B il corpo per passare da A a C dovrebbe prima aumentare la sua energia potenziale salendo fino al punto B per poi diminuirla scendendo al punto C. La differenza di altezza tra A e C rappresenta la differenza tra lo stato iniziale e quello finale, se l’altezza del punto C è inferiore all’altezza del punto A, possiamo dire che lo stato finale C è più stabile di quello iniziale, ma se per passare da A a C il corpo deve oltrepassare il massimo rappresentato dal punto B ad una altezza maggiore dell’altezza di A, il corpo per raggiungere uno stato finale più stabile (C) deve passare per uno stato intermedio (B) più instabile (a maggiore energia potenziale) rispetto allo stato di partenza A. La differenza di altezza tra A e B rappresenta l’energia di attivazione del passaggio tra A e C, se il corpo che si trova in A non arriva prima in B caricandosi di energia potenziale non potrà ricadere in C diminuendo nettamente la sua energia potenziale rispetto al punto di partenza A.
Se il copro di cui parliamo non può ricevere energia dall’esterno, il passaggio da A a C avviene solo se non c’è il picco di attivazione B, ed è un passaggio irreversibile, il corpo cade, perde la sua energia cinetica nell’urto e resta lì perché non può riacquistarla. Per fare passare il corpo da C ad A sarebbe necessario fornirgli energia dall’eterno e questo è stato escluso per ipotesi, il corpo resta quindi definitivamente in C.
Se invece si ipotizza che sia possibile fornire energia al sistema dall’esterno, viene meno anche il concetto di irreversibilità, il corpo che si trova in A deve ricevere dall’esterno una energia di attivazione paria alla differenza di altezza tra A e B (relativamente piccola) per passare in C (ipotizzato a un livello più basso di A) e restituire energia pari alla differenza di quota tra B e C, maggiore dell’energia di attivazione, il processo quindi, al termine, conduce ad una diminuzione di energia potenziale e ad una maggiore stabilità. Se il corpo fosse in C potrebbe ritornare in A ma solo ricevendo dall’esterno un’energia pari al salto tra C e B, energia di attivazione del passaggio tra C e A, e restituendo alla fine una quota di energia corrispondente al dislivello tra B e A, miniore dell’energia di attivazione, in questo caso quindi il processo porterebbe a uno stato finale meno stabile di quello di partenza. Le osservazioni fatte hanno una validità generale in moltissimi campi e costituiscono la base della teoria della stabilità.
Proviamo ad applicare quanto detto al mondo dell’affettività. Immaginiamo di porre in ordinata lo stress e immaginiamo di rappresentare in ascissa una successione di stati possibili per un ragazzo, dalla condizione di single instabile che non pensa ad avere una vita di coppia (tratto che precede il punto A) a alla condizione di single che si sta spostando verso un coinvolgimento di coppia (tratto AC) alla condizione di componente di una coppia in condizione instabile (tratto oltre C). La curva è la cosiddetta curva di stress. Ipotizziamo che un ragazzo si trovi nello stato A, punto di minimo stress e quindi di relativa stabilità. Se il picco rappresentato dal punto B non ci fosse e il tratto della curva da A a C fosse costantemente decrescete lo spostamento verso una situazione meno stressante C sarebbe naturale e spontaneo. Il ragazzo passando gradualmente da A a C diminuirebbe il suo stress in modo progressivo fino alla nuova situazione di stabilità. Tuttavia accade spessissimo che la curva di stress presenti un massimo tra A e C, in questo caso per passare da una situazione di minimo stress relativo A ad un’altra di minimo stress relativo, inferiore ad A, rappresentata dal punto C, è necessaria una energia (uno stress) di attivazione, cioè è necessario un aumento dello stress che porti a superare lo stress di picco rappresentato dal punto B, per poter poi collocarsi in una situazione finale di maggiore stabilità C.
Immaginiamo che il punto A rappresenti un soggetto in condizione di single in equilibrio e il punto C rappresenti lo stesso soggetto in condizione di vita di coppia in equilibrio. Ammettiamo per ipotesi che C sia una condizione meno stressante di A, se la curva AC è sempre discendente il passaggio da A a C è spontaneo e non presenta alcun problema in termini di aumento di stress, se tra A e C esiste un massimo B, per passare da A a C occorre uno stress di attivazione. Tanto più alto è questo stress di attivazione tanto più il processo è difficile. Inoltre, se il picco B non esiste chi si trova in A vede la prospettiva libera fino a C, ossia capisce dove sta andando e quindi se la situazione finale sarà di maggiore o di minore stabilità, se invece il picco B esiste, e quindi il passaggio da A a C necessità di uno stress di attivazione, chi si trova in A non è in grado di vedere che cosa c’è oltre il picco B e non può quindi capire fin dall’inizio se il superamento del picco di stress B sarà vantaggioso o svantaggioso, perché il punto C potrebbe anche trovarsi più in alto di A e la situazione di vita di coppia potrebbe quindi essere più stressante di quella di single. Per un etero in genere il tratto AC non presenta punti di massimo tra A e C, il soggetto capisce fin dall’inizio verso dove si sta muovendo e può quindi rendersi conto in partenza del fatto che la sua condizione in situazione di vita di coppia in certi casi sarebbe peggiore di quella da single (C più in alto di A). Per un gay invece lo stress di attivazione del processo che lo porta dalla condizione di single alla condizione di coppia esiste eccome ed è rappresentato dai problemi di carattere sociale e dalla parziale accettazione della omosessualità che si devono superare per arrivare alla vita di coppia. Per di più per un gay non è prevedibile in partenza, proprio per l’esistenza del picco B, se l’esito finale del tentativo di passare ad una vita di coppia sarà stabilizzante (minore stress) o ulteriormente destabilizzante (maggiore stress). Assumiamo per ipotesi, per semplificare il discorso, che la vita di coppia sia meno stressante della vita da single (C più in basso di A). Per passare dallo stato A allo stato C le strade possibili sono tante a tutte diverse una dall’altra, alcune di esse hanno stress di attivazione molto alto, altre decisamente più basso. I chimici sanno che la presenza di un catalizzatore fa in modo che una reazione con forte energia di attivazione, che per ciò stesso tende a non avvenire, può invece avvenire facilmente attraverso una serie di passaggi intermedi tutti a bassa energia di attivazione. Così nella vita affettiva, pensare di passare dalla situazione di single a quella di coppia in un solo passo è irrealistico (stress di attivazione altissimo e forte incertezza circa la maggiore stabilità della vita di coppia rispetto a quella da single) e per questo si cerca di creare una serie di passaggi intermedi, tutti a basso stress di attivazione, che possano portare al risultato finale. Tra l’altro valutando l’incremento di stress passo dopo passo è possibile farsi un’idea della convenienza dell’intero processo. Si parte dal creare un contatto, poi una simpatia, poi un’amicizia, un’amicizia sempre più stretta e ad ogni passo si valuta l’opportunità di fare il passo successivo.
Vengo adesso all’idea della identità e della complementarità. Un gay riesce ad affezionarsi profondamente ad un ragazzo quando lo sente veramente affine, in questo senso il fatto che l’altro sia gay è una condizione necessaria ma non sufficiente. Non basta che sia un ragazzo, altrimenti non si tratterebbe neppure di omosessualità, ma deve essere anche un ragazzo gay, perché senza questa condizione la reciprocità è teoricamente impossibile. In sostanza partendo dall’insieme “ragazzi”, ci si limita al sottoinsieme “ragazzi gay”, ma il processo di progressiva restrizione del campo procede ulteriormente imponendo la condizione che si tratti di un “ragazzo gay affine” cioè di uno che possiamo percepire come profondamente simile. Faccio un esempio classico di condizione restrittiva, un ragazzo gay non dichiarato orienta la sua ricerca tra i “ragazzi gay non dichiarati”. E ancora, un ragazzo gay che abbia un’esperienza di vita collegata ad un senso forte delle religione si indirizza prevalentemente verso ragazzi con esperienze affini. È poi naturale che un ragazzo si orienti verso ragazzi che percepisce avere una sessualità affine alla sua, cioè basata su fantasie e comportamenti sessuali simili, condizione senza la quale l’equilibrio sessuale è in realtà molto difficoltoso. È certamente più semplice trovare un’armonia di coppia tra persone strettamente simili che condividono lo stesso tipo di sessualità e per questo non hanno particolari disagi nella sessualità di coppia che non richiede, in questi casi, sforzi di adattamento da parte di nessuno dei due. Questi meccanismi di identificazione sono alla base anche dei rapporti di amicizia e valgono anche in campo etero ma in campo etero la sessualità ha inevitabilmente dei ruoli ben definiti e quindi nella dimensione strettamente sessuale di una coppia etero l’identificazione assume un senso molto relativo, mentre per un gay resta un valore importante anche nel campo strettamente sessuale. Perché un ragazzo si può trovare più o meno bene in Progetto Gay? Perché può essere più o meno in grado di stringere amicizie in questo ambito? La risposta viene da sé, maggiore è il grado di affinità che percepisce con gli altri ragazzi maggiore è il suo grado di integrazione e di gratificazione. Per un gay nei confronti dei ragazzi valgono regole analoghe a quelle che governano i rapporti di un etero con le ragazze: non esiste un confine definibile tra amicizia e amore, ma l’amicizia seria è la condizione minima per qualunque rapporto autentico di coppia. Aggiungo ancora che i ruoli, e non parlo di ruoli sessuali ma familiari, per un etero hanno un significato anche in rapporto ai figli, in queste situazioni la differenziazione tra il maschile e il femminile all’interno della coppia è automatica e spontanea. Tra i gay invece la condizione di sostanziale parità è una delle poche garanzie di equilibrio e di stabilità. Più il rapporto e sbilanciato più e fragile. Aggiungo che tra i gay il meccanismo di identificazione agisce anche e profondamente all’interno della coppia già costituita, se è una vera coppia: si assumono atteggiamenti dell’altro o meglio si condividono atteggiamenti del viso e del corpo, modi di esprimersi, e anche di ragionare e, col passare del tempo, se il rapporto funziona, si percepisce realmente l’altro come l’altra metà di sé. Questi meccanismi agiscono allo stesso modo anche nelle amicizie amorose, più o meno unilateralmente sessualizzate e nelle cosiddette migliori amicizie che per un gay possono essere un passo “a basso stress di attivazione” verso rapporti più coinvolgenti.

Alyosha
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Re: Amore come identificazione?

Messaggio da Alyosha » lunedì 20 febbraio 2012, 8:10

Project grazie per la risposta e wow che grazioso il grafico! :)
Ho faticato un pò a seguirti nella prima parte, però mi pare di aver capito che dopo una salita c'è una discesa e che perciò bisogna stringere i denti ed essere fiduciosi che in C si stia più comodi che in A visto che la salita tira di pendenza che è una meraviglia!
Sul discorso delle affinità mi veniva in mente una riflessione. C'è molto il rischio che un ragazzo che si è emarginato rispetto alla propria omosessualità, quando decida di tirarla fuori, si senta affine a qualunque omosessuale, per il fatto stesso che è omosessuale. Che ci sia un pò la convinzione, che quella stessa condizione di partenza abbia determinato sofferenze simili e che quindi l'altro gli si simile per forza di cose. Ci sono cascato più di una volta in questo frainteso in effetti.
Se capisco bene mentre una coppia etero trae beneficio.
Questi meccanismi di identificazione sono alla base anche dei rapporti di amicizia e valgono anche in campo etero ma in campo etero la sessualità ha inevitabilmente dei ruoli ben definiti e quindi nella dimensione strettamente sessuale di una coppia etero l’identificazione assume un senso molto relativo, mentre per un gay resta un valore importante anche nel campo strettamente sessuale. [...] Aggiungo che tra i gay il meccanismo di identificazione agisce anche e profondamente all’interno della coppia già costituita, se è una vera coppia: si assumono atteggiamenti dell’altro o meglio si condividono atteggiamenti del viso e del corpo, modi di esprimersi, e anche di ragionare e, col passare del tempo, se il rapporto funziona, si percepisce realmente l’altro come l’altra metà di sé.
Ok capito. Quindi mi pare tutto sommato di poter confermare l'idea che mi era balzata per la mente. Cioè i rapporti amicali, ce li ho proprio chiari in mente e hanno molto a che vedere con quello che scrivi tu. Non volevo dire che erano tutti innamoramenti, perché anch'io ho precisato che comunque, vuoi come vuoi non sono attratto fisicamente da loro (a parte che se so che è etero non ci metto neanche testa), però che una relazione d'amore con un altro uomo, può essere vista come una maturazione/evoluzione di quel tipo di rapporto. Un rapporto di stima, rispetto di condivisione di interessi e di "simpatia" per l'intero modo di fare e di essere per l'altra persona.

barbara
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Re: Amore come identificazione?

Messaggio da barbara » lunedì 20 febbraio 2012, 9:08

Forse sono la persona meno indicata e esprimere un parere, ma ci provo.
Per quanto riguarda le amicizie esclusive, mi è venuto in mente il concetto di omosessualità latente dell'adolescenza. Sarebbe secondo la psicologia una fase della prima adolescenza , quando nella persona è in atto una ricapitolazione della sua identità. Questa potrebbe essere una spiegazione oppure potrebbe essercene un'altra. , E' anche possibile, come tu hai intuito, che in un contesto meno omofobo alcune di queste amicizie speciali avrebbero potuto essere individuate da te come "cotte". Voglio dire: se il ragazzo in questione fosse stato una ragazza , ti sarebbe venuto spontaneo avere almeno il dubbio che fosse più di un'amicizia. Ma visto che non era contemplata la possibilità di una cotta omosessuale , tutto è rimasto relegato al concetto di miglior amico.
Sul concetto di identificazione qui si apre un dibattito interessante che vale in generale per tutte le coppie: ci innamoriamo da chi è diverso da noi o da chi è simile a noi (intendo come carattere, modo di ragionare ecc)?

Alyosha
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Re: Amore come identificazione?

Messaggio da Alyosha » lunedì 20 febbraio 2012, 14:22

Ci avevo pensato anch'io a quello che dici. Sicuramente in fase adolescenziale è più che possibile che certe amicizie abbiano il valore di cui parli. Mi ha molto colpito il fatto che non è un atteggiamento adolescenziale soltanto. Cioè mi succede in ogni contesto e tra l'altro al momento sono le relazioni più stabili che ho costruito, quelle che hanno contribuito a rasserenarmi e nelle quali stavo comodo. Ad ogni modo non volevo intendere che queste amicizie fossero cotte, perché per me non avevano allora e non hanno tutt'ora questa valenza. Di alcune si, ma me ne rendevo conto già allora che c'era un investimento affettivo o un interesse fisico diverso. Mi interessava molto più la tipologia di rapporto, per questa ragione ho chiesto approfondimenti sul concetto di identificazione. L'amicizia e l'amore sono due cose distinte è ovvio, però siccome al di là dell'interesse fisico comunque uno si deve più o meno fare un idea di cosa può funzionare con cosa, mi interessava capire quanto questo modo di impostare le amicizie fossero un buon modo di cominciare. Perché se è così sarei meno lontano di quello che credo per un verso, per altro verso realizzo facilmente che nelle cosucce che ho combinato sin qui non c'era a monte nessuna delle premesse perché potesse funzionare, ma solo tante gigantesche aspettative. Sull'identificazione non so dirti, per come l'ho vissuta io al di là del discorso sulle affinità che faceva Project e che ovviamente c'erano (anche perché tolto l'interesse fisico ai tempi completamente latente, qualcosa dell'altra persona deve pur interessarti), non è tanto un cercare il simile, ma un fare tue le doti e le virtù che riconosci nell'altra persona, un senso forte di stima e perché no un riconosce come buone caratteristiche che a te mancano. Altro non so dirti al momento devo rivedermi queste cose ben benino pure io in effetti.

barbara
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Re: Amore come identificazione?

Messaggio da barbara » lunedì 20 febbraio 2012, 20:24

Hai visto il film :"Harry ti presento Sally"? Credo che renda bene quello che penso in merito al rapporto fra amicizia e amore. Dici giustamente che sono due concetti ben distinti. Ma nella realtà ciò è vero solo in parte, secondo me, perchè non tutti i rapporti che viviamo sono collocati in modo così chiaro ai due poli opposti; ce ne sono altri che stanno nel mezzo .
Non solo: l'evoluzione di una "migliore amicizia" in innamoramento è più frequente di quanto non si pensi. Sono anzi convinta che una coppia del genere abbia delle ottime basi di compatibilità da cui partire.
Semmai il problema è rappresentato dalle nostre aspettative sull'amore, che sono fuorviate dall'ideale romantico. Capita che in queste coppie , anche se vanno d'amore e d'accordo, uno dei due inizi a porsi il problema se quello sia stato un "vero" innamoramento, con tanto di "colpo di fulmine" ecc.
Credo che queste teorie sia più saggio lasciarle da parte e cercare di capire se c'è intesa con l'altro e se si vuole condividere un'esperienza con l'altro, al di là di come si è arrivati a stare insieme. Non so se questa riflessione ha a che fare con il tuo quesito, ma la sento molto vera.

Piero89

Re: Amore come identificazione?

Messaggio da Piero89 » mercoledì 22 febbraio 2012, 2:30

Non ho letto gli altri commenti...tuttavia anche a me capita spesso di prendere le movenze di tipi di cui m'innamoro ma perché mi convinco che sono cose giuste da fare.

Non è che stai confondendo il fatto che spesso tu ti convinci che sotto certi punti di vista hanno ragione...allora confondi il fatto che sono bravi sotto certi punti di vista...e il fatto di "essere bravi" è una qualità che comunque cerchiamo tutti nel nostro lui?

Alyosha
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Re: Amore come identificazione?

Messaggio da Alyosha » mercoledì 22 febbraio 2012, 13:44

No non mi confondo affatto, avevo in mente grosso modo quello che hai scritto tu. Almeno ho capito che è così, è un forte sentimento di stima che mi porta ad imitarli.

arrofus
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Re: Amore come identificazione?

Messaggio da arrofus » domenica 1 aprile 2012, 2:36

Complimenti per la spiegazione chiarissima della prima parte.
Stai pensando di iscriverti a Fisica? fammi sapere mi raccomando.
Comunque mi ha interessato molto tutto il post.

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