I RANDAGI

La realtà dei gay, storie ed esperienze di vita gay vissuta
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Gherardo
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I RANDAGI XV

Messaggio da Gherardo » lunedì 19 luglio 2021, 11:55

Dimmi se c’è una speranza più bella, ne’ vicoli bui e quando sono di ritorno: una per cui valga la pena credere, in mezzo a quegli ultimi pampini, ove vengono meno le parole. A me ne basterebbe una anche cieca, di poco conto. Poiché la notte è torbida di luce e ravviva un quieto finirsi, un dolce sopraffare. Con niente nelle mani. Niente di risolto. È brutta la felicità che mi farebbe piacere avere. Ma non farmi dire cose grandi. Io voglio essere una cosa da niente. Mi sfinisce la grandezza che devo portarmi sulle spalle. È la normalità che mi manca. È il cercarla in ogni cosa, ogni banale azione umana. Trai filari di luce e il tumulto del sabato non mi importa di trovare niente. Non ho voglia di farmi vedere. Mettermi in mezzo agli altri per avvenenza. Inevitabilmente l’incertezza di chi guarda ed è guardato crea bei sogni. E noi ora più che mai dobbiamo restare svegli. Perché basta uno sguardo a farci ricredere in ogni cosa. Ma per molti la speranza è fonte di ogni male. L’ultimo male rimasto di cui forse avremmo più bisogno. Dobbiamo alla fine di quella strada tornare a casa: anche se non c’è nessuno, nessuno ad ascoltare il rumore dei passi, il respiro mentre sali le scale, l’odore tuo sull’uscio. Perché son qui non lo so, qui a questo punto. Forse vedrò le cose in modo migliore quando ci sarà più bonaccia. Il meglio che posso fare di me e del tempo è dare ogni cosa adesso per costruire quel sentiero. Facciamo il meglio delle scelte che possono esserci ora, di quello che di buono ci rimane ogni giorno. Moriremmo forse di meno così. Forse in questo modo il dolore non sarà un intruso ma una compagnia; una certo spiacevole e assordante, ma comunque accettata a petto saldo. Accentando l’inevitabile sofferenza impariamo a soffrire non di meno ma in modo più virile. E i locali son sempre laggiù se ti piace, gremiti e pieni, nessuno ti ferma per l’occasione: chi più ti garba lo puoi prendere con un gesto da niente. Nessuno ti ha mai detto di no. Ma, tu ne sei certo ormai, sarebbe orrenda la felicità che ne verrebbe. Cogliere un fiore non è nient’altro che strapparlo. Non volere è più grande di volere, me lo avessero detto da bimbo — è bello chi non lo sfregia una notte, chi si alza dal letto ed è lo stesso uomo che vi è entrato, quell’uomo che riconosce nell’altro una parte di se stesso. Azioni che sembrano allontanare la solitudine ce la rendono più vicina. Ecco, Annibale è alle porte: affrontalo. Non chiudere i battenti. Corrigli incontro. Non è detto affatto che vincerai. Ma la tua vita non si misura in vittorie e sconfitte. È ben oltre.

Gherardo
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I RANDAGI XVI

Messaggio da Gherardo » giovedì 22 luglio 2021, 15:50

Eravamo per risalire gli scogli ancora con addosso il salmastro del mare. Per tornare in cima ciascuno deve inerpicarsi su quel pendio che è affiancato da alcune scale sbalzate nella roccia. Te scendevi. Io addossato al sole non facevo nient'altro che pensare al mio pensiero. Ma un mio compagno fa cenno di far passare la tua comitiva. È stretto il passaggio. Da sopra tu non rivolgi gli occhi a lui ma guardi me. E nel ringraziarmi mi sorridi pienamente, a modo dei giovani, come se sulle tue labbra giacesse tutto il mondo vinto. Mi fissi gli attimi che bastano a dirne più di qualche secondo. Ed io, vinto dal dolce caso, ti guardo come un tempo forse guardò Odisseo le spiagge dei Feaci uscendo nudo dalla boscaglia. Capisco allora di aver compreso qualcosa di te. E risalgo. Torno via. Ma vorrei gettarmi indietro nei calabroni che ronzano. E correrti incontro. Raggiungerti alla fine dei mirti. E dirti un qualcosa. Dirti anch’io, beatissimo nel cuore, senza confronto, chi, stasera ti porterà a casa sua. È un niente, ma un'infinita quantità di emozioni non ha bisogno di stanze grosse, riesce a stare anche in un attimo. Ingenui atti di complicità nutrono l'esistenza, sono stenti di un giorno che bastano a chi si fa bastare il niente.

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I RANDAGI XVII

Messaggio da Gherardo » venerdì 23 luglio 2021, 23:06

Eran tuoi i libri sul Sufismo, che io presi per farci più belli i miei umori. Ma tu quanto fingevi d’amarmi, quanto ti deludevano tutte le mie grandezze. Roba d’altri tempi, vile, dicevi. E le morali stoiche, gli alti cipigli, ti parevano fanciullezze per te che eri uom d’affari, si può dire quasi di finanza. Nient’altro ero per te che l’Ortis che non potevi salvare — tu che mai amasti neppure tardo, ed io che ad ogni ora trasudavo vigori per le cose. Ci siam finiti, perché un ragazzo non deve fallire la tua reputazione accademica, te che ti vide pure la Sorbona. Viltà è stata Guido, un ragazzetto non può colmare una vita di fallimenti. Ed io di questo t’ho fatto più certo. Non potevo sgualcire la tua scalata sociale, la tua amata catabasi. Eppure quanto ti facevo stimare dagli altri, invece che da me; io dovevo sempre salvarti. Io che pur pensavo che eri uomo da amare. E le tue parole ancora ricerco quando devo farmi forte, quel tuo vezzeggiar francese, la bellezza che avevi da bimbo — certamente privi delle nostre violenze ci saremmo amati. Non sono arrivato ancora a ridere di te, che pure sei uno spettro, se rido è di me. Ed è notte quaggiù, non certo sulle terrazze di San Lorenzo. Chi è più forte stanotte? delle miserie del mondo, anima mia, come eri solito dirmi. Non certo io. Non sempre sorrido di una famiglia disgraziata. Allora dicevo ingenuamente gli uomini depravati non valere niente, ma erano gli unici ad essere realmente onesti con me.

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AL RANDAGIO SARDO

Messaggio da Gherardo » lunedì 26 luglio 2021, 22:13

Affondino nel profondo quei pensieri immondi come relitti nell’ebbrezza. Non è l’ora di essere fuorvianti. Ma fuorvianti siamo, i più fra tutti, e non sappiamo sviarci. Ad Atene c’è la peste. E non m’importa. Erano tutti già morti prima che giungesse. Invero per l’Attica fu una liberazione che la stirpe di Caino se ne tornasse all’oblio. Non la senti la cenere e il sangue sulle tue mani? Non brucia Roma soltanto, ogni uomo si fa Nerone del mondo. E suonate la cetra beati, danzate fremebondi mentre alberi, dimora altissima di ninfe, sono ridotti in cenere dopo generazioni. Nuovo suolo per erigere le vostre città-tumulo, antri di morti, uomini che hanno scelto di essere schiavi. Muore Abele, e si fa tiranno il gene dello stupro. Venga, venga la più orrida peste che nessun farmaco cura, risalga dal Pireo, giunga dal Ceramico fino ai Portici dipinti. Distrugga chi ama distruggere. Anche un dio ebbe rimorso di aver fatto gli uomini. O infelice dio Ebreo, non lo dice forse la tua Genesi, che ti pentisti di aver creato l’uomo e fu grande dolore nel cuore tuo? Perché esitasti e non lo sterminasti come desideravi? Non è degno di ciò che è eterno non rispettare la propria parola. Ora guarda come stermina la tua progenie, incendia, dilania, massacra, i mari insanguina. E sterili ha le orecchie agli strazi delle bestie che soffocano i respiri brancolando nel fumo, niente è ormai libero da questo morbo; non belano più, gemono e vagiscono annerite dalle esalazioni, mentre l’uomo piange disgraziatamente soltanto al pianto della sua specie. Perché, perché hai esitato? Non ti ha sempre tradito, fin dal principio, la tua creatura? Anche tuo Figlio dubitò di te. Capisco nel profondo, primo randagio del cosmo, perché ti sei allontanato dall’umanità e non ti sei più fatto vedere. Immensa deve essere la tua solitudine. Dio che non sei mio, la mia stirpe è infatti quella di Dardano, quanto è nostro questo dolore, quanto ci è comune questa sofferenza, questo svilimento per le umane cose. Non è tanto diverso il nostro cuore.

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I RANDAGI XVIII

Messaggio da Gherardo » giovedì 29 luglio 2021, 2:38

Non dirmi che devo dormire. È notte fonda ed è certo, non rimangono neanche i pettirossi sugli alberi vicini a cantare. Dimmi che dovrei sognare e allora mandami a letto. Rendi più dolce la frenesia, lo sgomento, le profonde cose che cascano improvvise nell'animo come un tempo Fetonte precipitava dal cielo. Basta scrivere. Basta non dire. Come? Non so. Si incomincia per simpatia, forse per voler fare qualcosa di bene a questo male, ma si finisce sempre a delirare. Son troppo malinconici i tuoi scritti. Almeno son veri. Questa conoscenza arriva soltanto per sofferenza. Anche nel sonno stilla davanti al cuore un’angoscia memore di dolori: anche a chi la rifiuta arriva la saggezza. Ma è torbida questa catarsi. E lenta e priva di spettatori. Che è il grido di un uomo se nessuno può sentirlo? Dimmi cos'è? Bisogna affogarlo in qualche modo. Tenere in freni le briglie. Con cosa? Non chiederlo. Bisognerebbe abbrancare un pezzo di cielo, ancora folto di stelle, in mezzo alla rozzezza del posto. La luna è la stessa di Omero — è bello dirlo, è un pensiero che almeno un poco toglie l’amaro. Te la guardi e dianzi di te c’era chi già lo faceva. Si abbraccia l’infinito futuro e l’infinito passato in un gesto molto semplice. Come un tempo nei suoi malumori se la godeva anche Platone. Una lira per sapere i suoi pensieri. Gli uomini cambiano ma il cielo è sempre lo stesso. Ci mette tanto a cambiare, e quando cambia, la luce ha ancora forza di venirsene quaggiù. Anche da morte le stelle continuano a brillare.

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I RANDAGI XIX

Messaggio da Gherardo » sabato 31 luglio 2021, 22:38

Essere sopravvissuti alla violenza significa uscirne inevitabilmente a pezzi. Farsi ritrovare a lungo come le statue ripescate dal Mediterraneo, coperti di ruggine, senza arti, con una sola gamba o un solo braccio, fregiati in volto. È questo che vuol dire vivere: è tutto nella sopravvivenza. È vero chi lo diceva prima di me. E sopravvivere è trovare un senso al dolore. Eppure neanche la più acuta comprensione delle cose diminuisce il grande scandalo della sofferenza. Soltanto l’accettazione è quello che forse può farlo. Ho incominciato a scrivere queste righe, questi randagi, perché una email anonima mi ha ricordato molti degli uomini con cui sono stato (a chi dovrò chiedere perdono se ho avuto bisogno di amare molto?). Non c’era certo l’intento di sembrare pietoso. E neanche il tentativo di sentirsi meno soli. Questo forum rimane un baluardo contro la perversione dell’utile che sta regnando dovunque, anche sui nostri corpi. Uno se è qua, se io sono qua, è perché ho sentito il bisogno di raccontare la mia, una parte della mia storia, scritta in modo difficile, di rado semplice, perché difficile è stata per me. Di dire, succedono atrocità, atrocità che neppure dio saprebbe guardare, e in qualche modo, non riescono a distruggere tutti. Ci rimangono addosso cicatrici, ci rimane addosso l’odore del sangue sulle mani, i lividi delle botte, gli spari, gli sputi addosso. La gente lo sa benissimo che si può morire. Ma che si possa vivere non è certo per tutti. Non è certo neanche per chi lo scrive. Ma anche così, nella loro rovina, i torsi, i gruppi scultorei, i templi crollati, non perdono niente della loro bellezza. È bello ciò che resiste alla barbarie del tempo, dell’uomo, dell’abuso, dell’utile. Ad una famiglia incapace di amare. Ci vuole uno sforzo sovrumano a credere che la vita non sia tutta persa. Anche se si è giovani. Ero inquieto una volta, nel mentre sento dirmi, oggi al mare sembravi un dio. Mi volto a guardare chi fosse. Era mio padre, con addosso ancora il vecchio sangue sulle mani. Eri una bellezza d’omo mi dice. Forse è soltanto l’inferno che ci può liberare dall’inferno.

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I RANDAGI XX

Messaggio da Gherardo » mercoledì 4 agosto 2021, 22:30

Che sei? Stai sulla soglia ed avanzi, con splendide mani sarde, forti come cime. Mi fai perdere senno nella tua voce. Bestiale contro ogni norma, e tu libero al pari mio. Ti poggio la mano sul petto, e che sei? che sei? Nel pensiero ti chiedo. Mordi e baci. Ti arrabbi e poi assali, e sorridendoti in sfida tu ancor mi baci. Fai il duro, con le ciocche che dalla fronte ti cascano nere, ma in disarmo sei sempre, come a Venere il suo Marte, se in greco ti parlo: ti ammansisci nella voce mediterranea della mia gente. E da monte ti fai mare, dolce e virile, tremi, scorri su di me, sul mio petto. Divino è ogni tuo respiro. Un salmastro alito di nuraghe mi vien da te. Ti afferro con braccia di quercia. Non mi sono ignoti, o ragazzo, i doni di Cipride, né l’arco dell’Erota più saggio: sempre ne impugno le redini — e tu più giungi ed io lo tendo. Mi afferri il volto di barba e parole indescrivibili dici. Tali che son pronto a credere di star sognando. È questo l'amore? Ma poi ti tocco con delicatezza sovrumana e tra le mie dita so che sei reale. Nessuno fra noi è uomo di meno. Poiché ognuno quel che prende naturalmente ridà. Vermigli fuochi sono i tuoi occhi verdi che raggiungo con le mie labbra. Mi dici che sono pericoloso. E di amarmi tutta la notte sospiri.

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I RANDAGI XXI

Messaggio da Gherardo » venerdì 6 agosto 2021, 21:35

Mi trascini il braccio nella boscaglia, verdissima e purpurea fra i cardi nei raggi del sole. Non mi chiederai se sono felice, sai che non lo sono: se mi va bene, posso dirti di non essere triste. Il Rilke che porto dietro non lo conosci, non lo vedi. E non sai, tu che ora ardi di far l’amore nel bosco, il mio sdegno della vita quasi di tanto in tanto. Poiché? Un senso di profonda insoddisfazione torna e resta. Ah, ma come dirlo? Dov’è un cuore per versare il proprio? — nessun macigno risuona come le corde di una cetra, né si è sentito lo schianto farsi lieve come la schiuma del mare. Mi afferri, e io ti dico, perché non fai caso invece alla bellezza della natura? i fiori selvatici, l’erbe gialle, le felci sparse — e tu, e tu allora dici, guardo infatti la cosa più bella in mezzo alla natura. Io rido meschinamente. E ragiono di come negli ultimi anni ho trasformato le botte in baci, i lividi rossi in abbracci, il sangue in caldo splendido sudore: alla violenza subita, innaturale, ho messo le ali più belle. Ma di’, di’ al me bambino che avrò il mondo che bramava. E sogni mille e ancora più belli. Dirai? che profonda sarà la sofferenza e tutte le cose a brandelli? Ma non dire, ti prego, che razza di randagio sarò. Quel tipo a cui carezzano tutti il petto dicendo volto pari ad un dio, un dio sì, ma quale? Apollo? Apollo il dio della luce? Che nell’ombra stuprava le donne? Ti stringi ancora su di me, lì dove son crollati gli edifici ottocenteschi: io penso soltanto che dovrei studiare trigonometria, e vorrei lanciarmi nell’erba altissima, che vocia fra le spighe, al pari di un sileno. Mi baci. Ma tu sei uomo e ti trattieni allontanandoti. Io do un ultimo sguardo alle cime dei pini. Con acquietato mai questo furore.

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I RANDAGI XXII

Messaggio da Gherardo » domenica 8 agosto 2021, 22:03

Ti cascavano vermigli i boccoli sulla fronte. Eravamo davanti al mare — e tu bella eri e crudele. Ah, come ti correvo dietro le pietre e i vicoletti che si aprivano sui moli. Il salmastro dava forma al nostro vago filosofare. Avevi la mia età ed io ero un fanciullo soltanto che non sapeva tradurre neanche il più breve Cesare. Ma mi amavi. Palpitava strenuamente il tuo cuore sul mio. Innocente era l’amore, e il più bello: per me lo fu certo, per te, come dirlo? Amavi il mio rubare le rose nei giardini per donartele, il mio piegare la mano sui denti di leone e dire: così è la stirpe dei mortali. Quanti sguardi dovevamo fuggire. E ti volevo prendere la mano, e portare sugli scogli, e fra le tamerici, nel vociare degli altri che poco ci importava, guardavi il mare che tramontava: e anima antica mi dicevi è la tua. Io non sollevavo lo sguardo al tuo. Cercavo la mia redenzione. Ancora la cerco. Una smania ancora mi piglia. E camminerei sudato tutto il buio della notte, senza nessuna Itaca, con piedi sanguinanti e scalzi. Tu già sapevi che fossi randagio, quando impazzivo nel portati un Fedone. E tu sdegnosamente non lo aprivi. Non lo apristi, rammenti? Eri crudele, più di me, io erravo: erra, sbaglia mille volte, colui che ama. L’amante di sua sponte si espone all’errore. Lo fa soltanto chi ama. Ma te non amavi. È dolce, non so perché, ricordare anche chi non ci voleva alcun bene.

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I RANDAGI XXIII

Messaggio da Gherardo » martedì 10 agosto 2021, 20:09

Era un San Lorenzo di molti anni fa. Stillava odori ed era un placido soggiorno romano, nella periferia, ove il tuo fico incominciava a dar segno di frutti. E noi nell’attesa già sotto eravamo pronti a coglierli: ci bagnava la fronte il latte biancastro, acerbo non già come il nostro petto. Quei giorni non sono come oggi. Eravamo bimbi. E fu rapido a sfregiarti l’amore, non uno, ma quello che hai provato per me. E fu grande prova per te, perché il tuo dolce Antinoo, gran bel feticcio, non sai? Muore giovane sul Canopo. E giovane e caparbia sei scemata perché troppo e con brutta rotta era l'affetto. Eppure, rido, ti sembro ancora invincibile e forte. E invece son cosa da niente. Cosa priva di luogo. Che smania e non sa contenersi. Cosa con cuore. Ormai tu dirai sì di essere donna. A me mi vedresti scarmigliato ed alto, barbato: non oserei dire che fui uomo. Quel che pensi non ti renda uomo, mi direbbe la tua voce di asfodelo, è proprio ciò che ti rende tale. La rivorrei indietro e l’infanzia che non ebbi, prima che fummo adolescenti. Tu non sapevi. Non c’era questo caldo asfissiante un tempo in Roma. Avevo le mani sporche di terra e sporco il cuore ti nascondevo i suoi malesseri. Ero felice? Anche a non esserlo, quei giorni erano prossimi ad una qualche felicità. Bella e finta, instabile. Indicavamo con le dita gli astri che in notti insonni abbiamo veduto. Finché la torcia bruciava le coperte sull’erba, ma a noi che importava? Infinite erano le cose del cielo. Mi chiedono, antica amica, l’amore stanotte, uscire e, dicono, far vedere la mia bellezza. Eppure non mi vanno maschi stanotte né donne a baciarmi il collo. Non la voce di amici. Il Seneca mi è compagno e più bell’amante mentre io me ne vado.

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