GAY SENZA OBIETTIVI

Solitudine, emarginazione, discriminazione, omofobia...
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GAY SENZA OBIETTIVI

Messaggio da progettogayforum » venerdì 5 aprile 2024, 20:12

Capita a molte persone nel corso della vita di avere l’impressione di vivere senza obiettivi, cioè di vivere per vivere giorno per giorno, senza progetti e addirittura senza desideri, in un’apatia incolore che avvolge la vita in un grigio indistinto. Subentra la sensazione di inettitudine, di non senso delle cose e del tempo, che viene percepito come qualcosa di statico nella sua ripetitività. Queste sensazioni capitano ovviamente anche ai gay, ma hanno per i gay una coloritura particolare. I gay, se hanno un compagno, hanno i vantaggi e talvolta gli svantaggi della vita di coppia ma hanno comunque qualcosa che li allontana dalla malinconia esistenziale, perché la loro mente è o dovrebbe essere concentrata sulla realizzazione della felicità della persona amata. Quelli che non hanno un compagno, possono riempire il loro tempo di altre presenze: amici, parenti, semplici conoscenti, ma proveranno probabilmente una più profonda malinconia esistenziale, proprio perché quelle presenze non sono presenze forti e non canalizzano il complesso degli interessi di un individuo.

Il senso di smarrimento, di vuoto, di inconsistenza della vita è tanto maggiore quanto più si restringe l’orizzonte della vita affettiva. Quando gli obiettivi di base di indipendenza e di stabilità economica sono stati raggiunti, per un verso ci si sente ormai inseriti nel meccanismo produttivo e di relazioni tipico del mondo del lavoro e questo è, salvo eccezioni, gratificante, ma si entra anche in una routine per la quale ogni settimana è simile alla precedente, le persone sono sempre le stesse, le cose da fare sono sempre le stesse, il tempo libero è molto ridotto rispetto ai periodi che hanno preceduto l’ingresso nel mondo del lavoro, e anche la vita affettiva, se c’è, si standardizza, diventa anche abitudine e ripetizione. Le novità sono poche, la pianificazione diventa una regola di comportamento fondamentale. Se poi una vita affettiva non c’è, manca anche il tempo per cercare e coltivare amicizie o per cercare un eventuale compagno col quale non dico vivere la vita ma condividere almeno qualcosa di importante. Alla fine uno arriva ad una conclusione: “diventare adulti è una necessità, ma non è un guadagno: gli obblighi sono tanti, le gratificazioni sono poche e si va avanti solo perché si può solo andare avanti.”

E in tutto questo che peso ha la sessualità? Anche la sessualità diventa una sessualità adulta, parola in questo caso terribilmente ambigua. Per gli etero, diventare adulti, dal punto di vista del sesso, significa sposarsi, mettere su famiglia, almeno questo è il concetto più comune di sessualità adulta etero, ma i gay non hanno famiglia, qualcuno ha un compagno stabile, ma non è poi una cosa così comune, molti tendono a non creare legami troppo forti o troppo stretti per non perdere la propria libertà e vivono una sessualità instabile cercando contatti tramite le app o semplicemente tra le proprie conoscenze. Tutte queste cose, per un po’ possono pure funzionare, cioè possono funzionare se servono solo come sfogo sessuale, e comunque, anche in questo caso, alla lunga stancano. La sessualità non è sempre positiva, ma può essere anche frustrante.

In fondo l’assenza di obiettivi non è qualcosa di originario ma è una conseguenza del venir meno degli obiettivi individuali quando questi cadono uno dopo l’altro per effetto di frustrazioni pesanti e ripetute. Quando ci si rende conto che i propri sogni non sono compatibili con la realtà e che bisogna orientarsi verso obiettivi realizzabili, compatibili con il contesto, col mondo del lavoro, con le esigenze economiche e con mille altre cose, si ha l’impressione di aver perso il timone della barca e di vedere la propria barca ormai abbandonata alla corrente che la porta dove vuole. Gli obiettivi sembrano determinati in tutto e non solo in parte dal gioco delle correnti. L’idea della vita che non ingrana, del tempo che passa inesorabile, della vita affettiva che non decolla e delude sistematicamente, del lavoro introvabile o malpagato, delle relazioni familiari fallimentari e irrecuperabili, non fanno che accentuare una visione complessiva depressa di sé e della propria vita.

Se quando si cerca di costruire qualche relazione seria non si fa che ricevere rifiuti, incomprensioni e anche insulti, alla fine si sceglie la strada della risposta cinica, dell’atteggiamento evitante, che si presume possa portare alla tranquillità, col risultato che la ricerca della tranquillità porta invece alla solitudine. Tra questi due concetti, spesso, l’unica differenza sta nello stato d’animo di chi li vive. Per qualcuno la solitudine è una condizione necessaria per ottenere la tranquillità interiore, per altri, la ricerca della tranquillità, che in realtà è soprattutto una fuga dalle frustrazioni, conduce alla solitudine intesa come disagio da isolamento, in un certo senso il risultato di una costrizione e non di una scelta.

Bisogna essere chiari, la demotivazione non è un fenomeno patologico, ma una condizione piuttosto frequente nella vita di moltissime persone, la cosa diventa preoccupante quando non si tratta di periodi ma di una costante della vita che non ammette interruzioni, in quel caso la parola depressione potrebbe cominciare ad avere una vaga pertinenza.

Il vero problema, al di là della genetica e dell’epigenetica che indubbiamente condizionano queste situazioni, va ricercato nell’educazione affettiva o anaffettiva ricevuta nell’infanzia e nella prima adolescenza. L’affettività o l’anaffettività si imparano respirandole nell’aria di casa. I bimbi abbandonati nel girello per ore e ore davanti alla televisione, i bimbi abituati ai rimproveri e ai genitori che alzano la voce e, peggio ancora, che alzano le mani, collezionano da piccolissimi traumi e frustrazioni che ne condizioneranno la vita futura. La scuola competitiva, in cui i risultati contano più dell’affettività del bambino e dell’adolescente, non fa che deprimere l’affettività a tutto vantaggio della razionalità e della perfetta integrazione nell’ambiente. Il concetto di società basata solo su valori e interessi impersonali, abitua alla formalizzazione e alla spersonalizzazione dei rapporti, cancella le componenti affettive delle relazioni interpersonali e fa di un gruppo di persone una specie di macchina funzionale soltanto al conseguimento di obiettivi concreti.

Le motivazioni personali si ravvivano e crescono attraverso il dialogo e lo scambio continuo di esperienze e di conoscenze e attraverso il confronto di diversi modi di vedere la vita e i rapporti umani. Il dialogo è una medicina dello spirito, aiuta a prevenire gli atteggiamenti depressivi, migliora l’umore e allevia il senso di frustrazione.

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GAY, TRAUMI E DISADATTAMENTO

Messaggio da progettogayforum » sabato 6 aprile 2024, 11:06

Un trauma è un fatto imprevisto profondamente destabilizzante che provoca reazioni di disorientamento, di panico e di sgomento che è difficile controllare. Se il fatto traumatico, cioè lesivo o potenzialmente lesivo, è dovuto ad un evento naturale come un terremoto o ad un fatto sul quale non abbiamo alcuna possibilità di controllo, lo consideriamo come un puro fatto verso il quale è possibile reagire in modo sensato soltanto prendendone atto e accettandolo per quello che è. Oggi nessuno si sente in colpa per un terremoto. Secoli fa accadeva anche questo.

Se invece il fatto traumatico si è originato all’interno di una relazione interpersonale o sociale e quindi ha cause certamente legate alla vita di relazione, ci si chiede spesso “di chi è la colpa”, un concetto ereditato dalla religione, che di per sé aiuta o meglio potrebbe aiutare a fare luce sull’accaduto, se l’individuazione del colpevole non fosse fortemente condizionata dalle reazioni emotive della vittima o presunta tale. Si può scaricare o tentare di scaricare le proprie colpe su altri, ma si può anche reagire colpevolizzandosi, ossia assumendo a priori su di sé la colpa dell’accaduto. In realtà il concetto di colpa tende a distinguere in modo netto tra colpevole e vittima, cosa che inquadra il problema in una cornice binaria: “o colpevole o vittima”, ma l’esperienza delle relazioni interpersonali ci induce a dubitare delle classificazioni binarie, perché accade molto spesso che tra i due ruoli i confini siano assolutamente fluidi e soggettivi, spesso ci si sente vittima senza esserlo, come ci si può sentire colpevoli senza esserlo oggettivamente. In un certo senso la valutazione del fatto traumatico e le reazioni conseguenti dipendono in modo determinante dal modo assolutamente soggettivo di leggere gli eventi.

Abbandoniamo per un po’ il concetto di colpa e guardiamo i traumi generati all’interno di una relazione come episodi disfunzionali di quella relazione. Può accadere, e non è raro che accada, che una relazione abbia momenti disfunzionali, quando però questi momenti sono frequenti, è lecito chiedersi se non sia disfunzionale la relazione in sé. Relazione significa comunanza anche parziale di obiettivi e di punti di vista e soprattutto progettualità comune, anche limitata, ma autenticamente condivisa. Il presupposto della progettualità comune però, in molte cosiddette relazioni non è verificato e i due partner restano insieme perché ciascuno ha il suo progetto e tende ad inserire l’altro nel suo progetto e a strumentalizzarlo al fine della realizzazione dei propri scopi. Ciascuno tende ad essere il protagonista, a decidere che cosa conta e che cosa non conta, relegando il partner in un ruolo secondario, utile ma non determinante. Ma un rapporto che è più o meno consapevolmente ma sostanzialmente strumentale da entrambe le parti è di per sé disfunzionale proprio perché manca una progettualità autenticamente condivisa, e resiste finché permane dalle due parti la percezione (erronea) di una progettualità condivisa, cioè fino a quando le dimensioni individualistiche che sottostanno al rapporto non sono ancora evidenti o sono addirittura inconsce. Quando questo meccanismo conservativo illusorio viene meno, la relazione si palesa per quello che è, subentra il trauma, il castello di carte crolla e la sensazione di sconforto e di frustrazione diventa aggressiva e dominante.
Ma quali sono le reazioni conseguenti al trauma? Le reazioni presentano in realtà una mescolanza di elementi oscillanti in grado molto variabile tra due poli opposti, uno depressivo e uno liberatorio.

Le reazioni depressive possono essere sintetizzate nell’espressione. “Ho perso cose per me importantissime” e si concretizzano in reazioni di sconforto, di abbandono, nella sensazione del venir meno dei punti di riferimento, nell’ansia, nell’insonnia, nel ritorno quasi ossessivo di contenuti connessi a quanto si è perduto, nella irritabilità, nella possibile aggressività di sfogo e nel senso di rovina irrecuperabile o di caduta delle illusioni.

Le reazioni liberatorie possono essere sintetizzate nell’espressione: “Me ne sono liberato! Non ne potevo più!” e si concretizzano in un recuperato senso di libertà, in una piena disponibilità di tempo mentale, nella soddisfazione collegata alla cancellazione dei contatti social e di tutto il materiale comunicativo accumulato in anni di relazione con una cancellazione della memoria del cellulare che rappresenta simbolicamente la volontà di cancellazione dei corrispondenti ricordi dalla memoria individuale.

Difficilmente le reazioni sono tutte di uno stesso tipo o tutte dell’altro, uno dei due tipi tende a diventare dominante ma per più giorni le reazioni si mescolano e si alternano con intervalli anche di poche ore.

Ci si rende spesso conto di come la sessualità possa diventare uno strumento condizionante, capace di indurre due persone ad entrare in una relazione in nome di una sessualità che potrebbe essere gratificante ma che diviene spesso motivo di larvato ricatto e di imposizione. È come se i contenuti che sono stati mitizzati per anni perdessero d’un tratto tutto il loro fascino e si trasformassero in cause di sofferenza.

Il sentimento depressivo è in genere aggravato dal fatto che non può essere manifestato all’esterno se non a pochissime persone e che, anche da parte di quelle pochissime persone resta comunque concreto il rischio di sottovalutazione e di banalizzazione del problema. In queste situazioni il classico discorso consolatorio non ha alcun senso ed è ansi del tutto controproducente e suscita spesso reazioni di rabbia e di rifiuto del dialogo. Le parole servono a poco e possono essere dannose. Una presenza discreta e rispettosa, che manifesti comprensione e condivisione, almeno fin dove è possibile, è l’unica, per quanto debole, possibilità di sostegno.

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